Lockhart: Esplorando la Dualità di Normalità e Atipicità nel Cinema e nella Fotografia


L’esplorazione cinematografica dei movimenti minimi, uno studio preciso delle proporzioni e del rapporto invisibile tra pubblico e proiettato. Il quotidiano diventa un protagonista mai banale, mai semplice.

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All’inizio della sua carriera, Sharon Lockhart ha identificato il film come un mezzo attraverso il quale poteva esplorare sia la normalità che l’atipicità, attraverso una costruzione meticolosa caratterizzata da un’immobilità rigorosa o da movimenti minimi della macchina da presa, che spesso presenta persone, spazi ed eventi che altrimenti potrebbero passare inosservati. In particolare, i primi lavori di Lockhart mostrano l’interesse dell’artista nell’individuare le intersezioni salienti tra cinema e fotografia catturando fotogrammi di eventi che sono spesso associati al cinema e al teatro. E quindi “Auditions”, una serie di fotografie del 1994, congela le interazioni intime e imbarazzanti di coppie di adolescenti che si baciano durante un’audizione diretta dall’artista.

All’inizio della sua carriera, Lockhart ha identificato il film come un mezzo attraverso il quale poteva esplorare sia la normalità che l’atipicità, attraverso una costruzione meticolosa caratterizzata da un’immobilità rigorosa o da movimenti minimi della macchina da presa, che spesso presenta persone, spazi ed eventi che altrimenti potrebbero passare inosservati. In particolare, i primi lavori di Lockhart mostrano l’interesse dell’artista nell’individuare le intersezioni salienti tra cinema e fotografia catturando fotogrammi di eventi che sono spesso associati al cinema e al teatro. E quindi “Auditions”, una serie di fotografie del 1994, congela le interazioni intime e imbarazzanti di coppie di adolescenti che si baciano durante un’audizione diretta dall’artista.

Nell’autunno del 1996, Lockhart ha intrapreso una residenza di tre mesi nella prefettura giapponese di Ibaraki. Durante la sua permanenza, l’artista ha frequentato regolarmente gli allenamenti di una squadra di basket femminile in una scuola media locale. Nel suo film “Goshogoaka” (1997), composto da sei sequenze a ripresa singola, un sipario funge da sfondo letterale per i movimenti della squadra, coreografati da Lockhart e dal ballerino Stephen Galloway. Mentre i giocatori corrono dentro e fuori dallo schermo, le tensioni oscillano tra la telecamera fissa e i soggetti in movimento. In una serie di fotografie di accompagnamento, le variazioni di prospettiva che sono così vistosamente assenti nel film fissano i giocatori in posizioni statiche. Sia nei suoi film che nelle fotografie, Lockhart eleva le routine quotidiane in eventi che sono enfaticamente calmi e sottili, ma completamente ipnotizzanti.

L’illusione che l’opera sia una semplice documentazione delle routine è rotta anche dall’inquadratura autoreferenziale di Lockhart e dall’utilizzo dello spazio fuori dallo schermo in cui ci viene fatto riconoscere che tutto ciò che vediamo è tanto in posa quanto improvvisato. Questo concetto dello spazio cinematografico, per sua stessa finalità, essendo una zona di contemplazione sarebbe stato ulteriormente esplorato nel prossimo film di Allock.

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Teatro Amazonas (1999) è ambientato nell’omonimo teatro dell’opera di Manaus, in Brasile, e consiste in un’unica ripresa di mezz’ora girata in 35mm di un pubblico nativo che ascolta un pezzo di avant -garde music (musica di Becky Allen). Man mano che il film va avanti, le voci del pubblico sovrastano completamente le voci della musica nello stesso modo in cui la nostra concentrazione è distratta dalla lunghezza della ripresa. La telecamera di Lockhart ci colloca sul palco, con il pubblico dei nativi americani che ci fissa, e quindi riesce a capovolgere lo sguardo coloniale, e ogni minuto che passa aumenta la tensione invece di abituarci al nuovo spazio, secondo uno schema che richiama “Shirin” (2008) di Kiarostami nel modo in cui lo schermo funge da specchio in cui un pubblico assomiglia all’altro.

Nel 2003, Lockhart tornerà in Giappone per creare una serie di lavori con gli agricoltori locali. Il suo film “NŌ”, creato in collaborazione con un coordinatore del movimento, è un’opera altamente formalista che tenta di studiare le proprietà del fotogramma del film con il processo agricolo di pacciamatura come sfondo. Ritrae due contadini (Masa e Yoko Ito) mentre che accumulano mucchi di fieno e poi li sparpagliano su un campo, finendo per colorare la metà inferiore del telaio. Per tutta la durata del film, si avvicinano progressivamente alla telecamera a inquadratura fissa, per poi tornare sul retro del terreno agricolo ora coperto di fieno. Vediamo che più gli agricoltori sono lontani dalla telecamera, più tempo impiegano per attraversare l’ampiezza dell’inquadratura. Man mano che la quantità di fieno raccolto diminuisce al diminuire della distanza dei lavoratori dall’inquadratura, ci rendiamo conto che le aree geografiche e rappresentative di una regione sono inversamente proporzionali tra loro e che il campo visivo di una telecamera è conico anziché cubico.

Dopo alcuni anni di sperimentazione, Lockhart ha diretto il suo primo lungometraggio “Pine Flat” che, costituito da dodici sketch silenziosi di dieci minuti l’uno, verte su un gruppo di ragazzi di una piccola comunità della California rurale. I primi sei schizzi trattano di bambini soli e i sei successivi di gruppi di adolescenti e bambini che bazzicano insieme. Lockhart rivela che voleva indagare l’esperienza soggettiva del tempo in entrambi questi tipi di situazioni, e in entrambi i casi i bambini sembrano in qualche modo sconfiggere la noia concedendosi se stessi e l’un l’altro. Girato nell’omonima zona della California, dove ha vissuto per diversi anni, il film fa rivivere le sue ossessioni per la temporalità filmica, in particolare quella dell’infanzia e dell’adolescenza: attraverso un rigoroso lavoro di sperimentazione, la regista si muove, infatti, sulla linea di confine che separa cinema e fotografia intrecciando ed estremizzando le potenzialità dei due media. Punto di partenza è l’osservazione della vita quotidiana nei suoi dettagli e in particolare di gruppi sociali e umani peculiari, con i quali spesso l’artista intreccia rapporti relazionali e collaborativi per la produzione di film e serie fotografiche strettamente correlate. I segmenti sono ridotti al minimo funzionale e risultano poco più che fotografici: una ragazza che legge un libro, un ragazzo che suona l’armonica, un bambino che aspetta lo scuolabus, un ragazzo che dorme per terra e così via. Questo ritorno allo “zero cinematografico” si rispecchia anche nell’implicito ritorno allo zero della natura, con la raffigurazione dei bambini che giocano e svolgono allegramente le loro attività nei boschi lussureggianti.

Nel film “Lunch Break” del 2008, una carrellata, che è stata rallentata digitalmente, porta gli spettatori attraverso un corridoio della fabbrica Bath Iron Works nel Maine e presenta un’esperienza visiva strutturata di quarantadue lavoratori che partecipano alla loro pausa di mezzogiorno. Il film è quasi interamente costituito da piani verticali, sforzando e allenando i nostri occhi a tal punto che iniziamo a riconoscere il più piccolo dei movimenti laterali che subisce la macchina da presa.

Durante tutto il film, il movimento deliberatamente misurato della telecamera consente agli spettatori di concentrarsi sulla funzione sociale del corridoio; durante la pausa, i lavoratori conversano, riposano e mangiano all’interno dei confini di questo spazio liminale. Estendendo la pausa pranzo in un film di ottantatré minuti, Lockhart raffigura i lavoratori che interagiscono tra loro, inclusa una serie di attività indipendenti gestite dai lavoratori del ferro che si occupano dei loro colleghi, creando come un ritratto dettagliato di un gruppo di persone che sono regolarmente unite in un momento e in un luogo specifici e da un particolare insieme di condizioni.

Sempre nel 2008 Lockhart intraprende un progetto simile, tentando di raccontare i lavoratori che escono da una fabbrica – ancora Bath Iron Works – nell’arco di cinque giorni. A differenza del film precedente, non riusciamo a vedere i volti del lavoratore. Solo pochi di loro sembrano addirittura accorgersi della presenza di una telecamera. Durante la settimana, vediamo un certo numero di lavoratori entrare nell’inquadratura, allontanarsi dalla telecamera e scomparire in un punto vicino al centro. Non c’è uno schema rigoroso: un uomo si ferma a chiacchierare con un altro, sentiamo a malapena le loro voci e rimaniamo interrogati sulla poesia delle loro vite; colpisce solo come la maggior parte dei lavoratori indossi i jeans, quasi a suggerire la produzione di massa di merci, il discredito dell’abilità umana e l’omogeneizzazione della cultura.

Poi con “Podwórka” (2011), girato a Lodz, in Polonia, ritroviamo come una versione in miniatura di “Pine Flat”: anche questo film presenta una serie di schizzi della vita dei bambini di una particolare città. Ma, a differenza del film precedente di Lockhart che riprendeva i bambini all’altezza degli occhi e da una distanza ravvicinata, i bambini qui sono fotografati con una prospettiva distaccata e in campi lunghi come se li integrassero con il loro ambiente, presentandoli come elementi umani che si muovono attraverso paesaggi industriali contrassegnati da tubi arrugginiti e strutture apparentemente defunte.  Ma le pareti sporche e fatiscenti del quartiere sembrano non dare fastidio ai bambini, allegramente impegnati a giocare con il fango, le biciclette, i palloni e gli edifici circostanti, dando forma a una testimonianza visiva dell’intraprendenza giovanile del regista.

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