Dopo il Belzebù de “Il divo”, il Monello di “Hammamet”


Nel Craxi di Gianni Amelio non si troverà né il demone né il santo. Questo film non è stato fatto per soddisfare la curiosità, il rancore, o il sadismo del pubblico. Amarcord 2020, tangentopoli all’orizzonte e il  profumo di garofani rossi. 

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Io sono il tenebroso, il vedovo, l’Inconsolato,
il Principe d’Aquitania nella Torre abolita:
la mia sola Stella è morta, e il mio lutto costellato
porta il Sole nero della Melancolia.

Nella notte del Sepolcro, Tu che mi hai consolato,
restituiscimi Posillipo e il mare d’Italia,
il fiore che piaceva tanto al mio cuore desolato,
e la pergola dove la Vite alla Rosa s’intreccia.

dalla poesia “El Desdichado” di Gérard de Nerval

Ultima opera o prima operazione di Gianni Amelio? Non la seconda. È un regista intellettualmente onesto, legato a quel filo d’Arianna che nel secondo dopoguerra ripartì da Camus e passò per Sciascia (pensiero meridiano), che, fra anni 80 e 90, emerse per diversità rispetto al filone felliniano (meglio dire fellinista), ma anche rispetto a quello del cinema impegnato.

La parola più usata per il cinema di Amelio penso sia “asciutto”. La penso corretta, ma credo dica più dei critici che del regista. Chi ha vissuto inzuppato negli stimoli degli “anni ‘70 nati dal fracasso”, o degli ‘80 “ballando Reagan-Gorbaciov”, restava certamente colpito da questa asciuttezza così contrastante con le umidità marxiste-leniniste e le succosità craxiste-felliniste.

Se la sua attenzione narrativa per i temi nazionali poteva comunque ancora accostarlo a registi come il pensatissimo Rossellini, il denunciatore Rosi, o il giocherellone Petri, ciò che è stato meno rilevato è quel grande senso dello spettacolo, proprio degli anni in cui producono i suoi capolavori (Ladro di bambini, Lamerica, eccetera).

La generazione di mio padre, buonanima (al confine tra  la silent generation e i baby boomer), e la mia (quella del limbo tra x generation e millenials), sono unite dal cinemascope. Per lui, il cinemascope trionfante, pionieristico in “La Tunica” e ruffiano negli spaghetti western. Per me, il cinemascope (ingiustamente negletto) della suggestività immediata (schietta), della maturità tecnica e della tensione scenica di Amelio e Bigazzi in “Lamerica” (1994).

In quel film, come negli altri, non un attacco alle mere contingenze, ma una storia fisiatrica (senza pretese ortopediche) delle scorrette posture per cui il nostro paese è cresciuto scoliotico.

Denuncia senza zelo, arte senza vezzo (se non quello di andar per ellissi e altre mancanze); immagini non didascaliche e storie minute per parlare del disorientamento etico (e politico) italiano principiato coi il drammaticamente squallido smaliziarsi degli italiani durante il miracolo economico, e raccontato da Amelio in Così ridevano (1998). Hammamet continua così, ma con un grande ritratto, quella storia umanitaria dell’Italia che il regista calabrese (ma assai greco) sta componendo dagli esordi della sua carriera (con un paio di postille anteguerra, Porte aperte e I ragazzi di via Panisperna).

Il film è molto piaciuto (la carica tragica, Favino, eccetera), ma ha ricevuto una principale osservazione dalla critica: mancherebbe di un’idea di fondo, una chiave di lettura sintetica e per questo motivo partirebbe lentamente e faticherebbe a concludersi affastellando più finali. In realtà, una scelta antiaccademica, che ci regala prima una chiusura onirica sulla vita di Craxi, e poi un cliffhanger deliziosamente complottista (e neanche tanto).

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Il film però è tutto un vasto fra-parentesi che si apre con il piccolo Craxi che spacca un vetro con la fionda e si chiude con una finestra che si frantuma nel nuovo millennio. Se da un canto Amelio si astiene dal dare un giudizio (sempre per onestà intellettuale non certo per viltà) sulle vicende di Craxi, d’altro canto questo film è un’ampia e dolorante riflessione sul Franti, contestatore irriducibile e scandaloso, che sorge di tanto in tanto in alcune personalità del nostro Paese in reazione a quello zelo, quelle ipocrisie,quegli equivoci che fanno parte della nostra scoliosi etica molto più e molto più pericolosamente degli illeciti politici.

Quella che alcuni critici hanno indicato come incertezza, è stata percepita, pur più epidermicamente, anche dai commentatori politici che ne hanno però fatto un’accusa: per i craxiani mancherebbe la grande politica, per gli anticraxiani la chiarezza sulle condanne.

La politica è però un interno foderato di superfici riflettenti, difficile da riprendere senza farsi un selfie (squalificante) e illuminarlo senza proiettare miraggi e fantasmi. Sull’altro fronte, il dramma giudiziario, per non puzzare di disclaimer, avrebbe bisogno di un film a parte (auspicabilissimo).

Politica e tangenti non sono però assenti dall’opera, sono servite per quei chiaroscuri necessari a rendere la plasticità del personaggio. Lear senza King sarebbe uno spiacevole mélo geriatrico, così come l’Agamennone (senza il fondale epico), uno di quegli imbarazzanti film dossier che infestavano i pomeriggi di Rete4 negli anni 90.


È un film onesto, forse non meditato (tranne per la scrittura del protagonista) e tanto motivato quanto ovattato dal contesto commemorativo, però credibilissimo e dotato di una certa mite inesorabilità, come la macina di un mulino. Centrato sulla dimensione tragica (quindi universale) di un potente decaduto nel passaggio da un Ordine Mondiale a un altro (convitato di pietra il carrarmato inglese abbandonato sulla collina dalla seconda Guerra Mondiale, quando quell’Ordine era stato inaugurato).

Confrontandolo con altri film biografici di leader del tardo XX secolo, ma senza avventurarci nel cinema americano (che è un caso a parte di manifacturing consent e dissent), “Hammamet” non è deprimente (né offensivamente patetico) come “The Iron Lady”, centrato sull’Alzheimer di Margaret Thatcher, neanche però un omaggio edificante come fu “Le Promeneur du Champ-de-Mars” per Mitterand (buon amico dello statista socialista).

Vien naturale accostarlo ai due lavori di Sorrentino su Andreotti e Berlusconi: Il divo e Loro. Lasciando stare quello su Berlusconi, il primo è il miglior termine di paragone con il film di Amelio. Per contrasto.

Il divo è un film di exploitation, appartenente a quel tardo fellinismo paraculo fatto di escamotaggi corrivi per tradurre (tradire) una storia personale in un prodotto di consumo. Craxi in Hammamet è sempre un pretesto, ma con un rispetto che non ha limitato, bensì corroborato, la già citata (e spesso sottovalutata nell’arte) onestà intellettuale.

C’è da dire che Andreotti-Belzebù era già un fenomeno pop, molto facile da ricreare come pupazzo.

Craxi, per il suo essere innovatore, non solo della pretta comunicazione politica, ma più effettivamente dell’espressione politica, era molto meno traducibile nell’innocuità del linguaggio massificato (le ironie andreottiane invece si prestano bene a tradirsi nel nichilismo corrente). Amelio, comunque, ha saputo evitare gli equivoci in cui è facile cadere quando si affronta un’icona, anche mediatica, del genere, mostrandosi capace di una scrittura fedele sia per il registro linguistico, ruvido ma sofisticato del vero Craxi, sia per i risvolti psicologici.

Venuti al tema dell’interpretazione autoriale è indispensabile un passaggio sull’interpretazione attoriale. Servillo, per antonomasia gigione, quando recita il repertorio originale andreottiano, pur sotto le protesi caricaturali, si esibisce, sfruttando al meglio il carisma proprio e quello dell’originale. Quando invece passa alle parti scritte da Sorrentino, è sbrigativo. Cerca di scomparire limitandosi a imitare una voce sotto la maschera. Performance del disimpegno e della deresponsabilizzazione.

Invece, profondamente inquietante, è l’interpretazione di Favino che riforma Craxi nella misura millimetrica dei gesti, nella frequenza vocale e nelle impronte psichiche su quei gesti e quella voce…in alcune scene in cui Craxi guarda il vuoto emerge per un istante la forte personalità, non del tutto domata da disciplina e talento, di Favino, disorientando dall’incantagione mimetica verso un Craxi occulto, regalando un mistero anche ai più pedanti biografi. Disturbante.

Il tema del divo è quello ingombrante degli Arcana Imperii, ma risulta banalizzato da quell’estetica da commedia dell’arte dark (con relative pose retoriche da scetticismo blues) tipica della X generation napoletana. Ciò porta quel grottesco Andreotti-Pulcinella in una dimensione metafisica con la quale Sorrentino trascura (sgarra) la propria ideazione e interpretazione pop. Non si capisce se voleva fare “Piranha” di Joe Dante con lo squalo di Spielberg, o “Jaws” con i ridicoli pesci OGM. E l’archivio “segreto” diviene la borgesiana Biblioteca di Babele.

Hammamet” mette in scena un cavaliere diseredato che si è dato all’eremitaggio come Amadigi di Gaula, un ronin, samurai decaduto, letteralmente uomo-onda (la famosa onda lunga…), un Re Lear, oppure un Filottete, abbandonato dai compagni a causa di una ferita fetida che non guarisce, ma necessario per espugnare Troia. È un Edipo a Colono con la sua Antigone, la quale prometterebbe quasi un sequel con quella videocassetta misteriosa (opposta alla fasulla confessione nel Divo), nella sua lotta tra focolare e polis, magari in parallelo alla vicenda dell’altro figlio, un Enea con un Anchise che non si fa portare in spalla mentre quello deve andare a rifondare Troia in Roma.

Il giovane personaggio inventato per il film ci permette di esplorare una sottigliezza psicologica in più del Leader. Dopo vari Delfini-Bruto, non raccontati ma adombrati nel film, Craxi (ovviamente parliamo sempre del Craxi ricomposto da Amelio) vede in quel ragazzo il Bruto, l’Edipo con la pistola che, araldo della evocatissima (invocatissima? O ordinata come i piatti di pasta) Morte, dovrà risolvere il suo destino di Padre degli Dei, quello di essere ucciso da un figlio. Non può essere la figlia Antigone né il figlio Enea, il dovere fra loro è l’amore, mentre i delfini politici furono troppo miopi.

Craxi è tentato ma l’artista Amelio, facendo emergere (grecamente) come la politica curi (droghi) la psiche, mostra come alla fine vinca la volontà di sopravvivere a se stesso. Ma la cifra del Grande Uomo non può essere certo una reazione isterica, animalesca contro la minaccia. Craxi discute, contratta, convince l’Araldo della Morte, soddisfa il Destino dandogli in ostaggio la misteriosa confessione.

Questo film non è stato fatto per soddisfare la curiosità, il rancore, o il sadismo del pubblico. Come Regista e Attore Protagonista hanno più volte sottolineato, consci di quale potesse essere il principale equivoco nella visione della pellicola. In Hammamet non si troverà né il demone né il santo, semmai solo quella personalità capace di generare queste due potentissime idee mentali.

Certo, un diavolo scornato e un dio in esilio.

Poco interessante soffermarsi su cosa manchi, o su cosa di vero stia dietro le invenzioni. Al cinema serve fisiologicamente qualche omissione, qualche supplemento, qualche stilizzazione o caricatura.

Infine, riprendendo la chiave di lettura del monello, questo film potrà inserirsi come originale testimonianza artistica e riflessione intellettuale nel dibattito pluridecennale su Craxi, aprendo forse addirittura una nuova stagione fuori dalle operazioni di conversione o convincimento, allontanando finalmente il leader socialista dal rimestio di vecchie cronache e aprendogli una dimensione nuova rispetto a quella storica e politica. Un uomo che è stato ad un tempo sia esempio che monito, un personaggio universale.

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