Buchi nell’acqua


Quando la marina militare indica i mari, la politica italiana guarda il dito. L’Italia priva di serie strategie dei propri punti di controllo. Una globalizzazione ideologizzata (pro o contro) e totalmente slegata dalla realtà delle grandi rotte commerciali.

L’affannarsi italiano dietro l’immigrazione via mare, dietro le maree dell’Adriatico che allagano Venezia e dietro le piogge che fanno straripare fiumi, scoppiare fogne e franare centri abitati, rivelano come il nostro Paese sia in ridicolo imbarazzo davanti al principale scenario geopolitico globale: le acque dolci e salate.

Diversi i problemi. Innanzitutto quello culturale-strategico. Un certo provincialismo ha sempre voluto l’Italia come appendice mediterranea della massa europea, di fatto facendone periferia culturale e geopolitica della dinamica franco-tedesca. Al di là di certa declamatoria imperialista, altrettanto provinciale, e di certe velleità primo-repubblicane, l’Italia non ha mai lavorato per declinare una strategia marittima in programmi, istituzioni, cultura, eccetera, eccetera. Miopia confermatasi nel demagogico accorpamento del ministero della Marina Mercantile in quello Infrastrutture e trasporti.

La mancanza di questa istituzione, o di altre possibili istituzioni delegate a una strategia marittima, ha poi contribuito a generare un problema amministrativo. L’unico recente segnale intelligente in materia (pensato però più come spending review) è stato dato dal governo Renzi con la creazione di distretti più grandi per il mosaico portuale troppo frammentario.

Entrambi i problemi, quello culturale-strategico e quello amministrativo, contribuiscono all’inefficienza italiana davanti alla Tecnica, fondamentale sfida dei nostri tempi. Per quanto riguarda il dissesto idrogeologico, che cito solo tematicamente, la questione è identica (manca una strategia sul dove e come abitare il territorio, sullo sfruttamento delle risorse idriche e di conseguenza le amministrazioni non sono pensate all’altezza del problema e falliscono tragicamente). La vicenda di Venezia è emblematica un po’ di tutto il cattivo rapporto tra l’Italia e le sue acque, ma lasciamo stare in questa sede.

L’Italia è certamente una grande incompiuta nella globalizzazione proprio perché deficiente sulla strategia marittima. La nostra classe dirigente affronta la globalizzazione come se fosse un problema culturale, legata al tema del libero mercato (come affrontarlo, come favorirlo, come contrastarlo, come superarlo…). Il libero mercato è però solo una sovrastruttura, una questione ideologica. La struttura della globalizzazione è il commercio marittimo. Fatto di gigantesche navi container che seguono rotte colleganti a porti geograficamente convenienti e infrastrutturalmente capaci di accoglierle e distribuirne le merci. Queste rotte vanno controllate e per farlo diventano determinanti i canali e gli stretti, i passaggi obbligati per il traffico marittimo.

Mar Ligure, Bocche di Bonifacio, Canale di Sicilia, Stretto di Malta, Stretto di Messina e Canale d’Otranto sono i chocke points” (così li chiamano gli americani, punti di strozzamento) di nostro diretto interesse.

Quelli siciliani in Particolare (che collegano i due bacini del Mediterraneo) e quello di Otranto (che conduce direttamente alla Mitteleuropa) potrebbero diventare formidabili punti di smistamento e controllo dei traffici marittimi (commerciali e militari) col vantaggio di non dovercela vedere direttamente con altre potenze regionali confinanti. Senza però una diplomazia lungimirante nei Balcani e con Malta (litigare per i barconi come se fossero la stessa cosa…) e con i disastri della Primavera Araba che hanno finito di scipparci i rapporti con Tunisia e Libia (necessarie anche come linea difensiva), tutto questo non sarà mai possibile. Se poi a ciò aggiungiamo che la maggior parte dei fondi europei per lo sviluppo portuale si è spersa nell’equivoco turistico… ecco evidente l’insufficienza italiana che nessun sovranismo potrà mai colmare.

Solo la marina militare, proprio in quanto unica istituzione rimasta a dover pensare strategicamente il mare, ha delle idee da ascoltare e porta avanti una sua diplomazia tecnica e marittima (il grande viaggio della Cavour attorno l’Africa, ad esempio), ma la classe dirigente non sembra ascoltare più di tanto. Eppure le grandi potenze conoscono e cercano di utilizzare il nostro potenziale geopolitico marittimo. Una delle più importanti flotte americane staziona a Napoli, e la Cina ci guarda da tempo per la sua Via della Seta (oggi Trieste e Genova, ieri Taranto e Gioia Tauro).

In Italia, decenni di lotte incancrenite per qualche chilometro di ferrovia in Val di Susa e ora nuove proteste per la TAP che gli USA vogliono realizzare per emanciparci un po’ dalla Russia (ma che è un progetto grande appena un decimo di Nord Stream). Per non parlare della nostra giustizia, soprattutto amministrativa, che pesa come il proverbiale macigno sulla nostra credibilità (immaginate la Via della Seta che finisce al TAR del Lazio, per non parlare dell’assurdità della vicenda ILVA).

Non riusciamo a fare più nulla, non abbiamo strategia, non abbiamo risorse, non abbiamo strumenti, non c’è una strategia condivisa dalle nostre istituzioni né dai centri di potere rimasti e, in fine, stiamo anche perdendo le competenze tecniche. Navighiamo a vista tra un governicchio e l’altro e ci ritroviamo, tanto per usare un proverbio siciliano, l’acqua dentro. e il rubinetto fuori.

Immagine: Foto NASA.

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