Andrew Noren, quando l’oscurità divien visibile


Avanguardia diarista e metafisica della luminosità. Un regista della più creativa New York che ancora oggi impressiona e stupisce con la sua tradizionale potenza estetica, a più di 50 anni dall’esordio.  

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Asseconda le possibilità del proprio dispositivo verso una soggettivizzazione progressiva ed esasperata, ci ritroviamo nel genere minore del cinema diaristico che nasce dalla convergenza del cinema diretto con i moti intimistici dell’underground. E generalmente siamo soliti pensare alla forma più lirica di Mekas in quanto viene oggi considerata come lo standard della categoria, ma tra i primi, nell’avantgarde newyorkese, ritroviamo Andrew Noren, il cui lavoro si avvilupperà in un vortice sperimentale-performativo.

Noren inizia a realizzare film d’avanguardia dalla metà degli anni ’60. Dal 1968 ha lavorato a un film diario in più parti intitolato “The Adventures of the Exquisite Corpse”, raro esempio delle qualità trasformative e astratte del film in bianco e nero, che può essere considerato come una meditazioni sull’essenza del film nel catturare con fantasia la semplice bellezza delle scene domestiche.


Attraverso lo sguardo di Noren, il cinema diventa un vedere raffinato e fantasioso dove l’oscurità diventa visibile, e la mente si abbandona all’immaginifica fantasia, formando uno scenario di intenti e desideri, che proietta quella luce attraverso l’occhio sul mondo. I suoi film combinano questi elementi in un’ossessionante metafisica di luminosità e cupa oscurità, una musica visiva di delicatezza e potente cinetica, che rivela e si diletta nella natura fantasmatica delle apparenze.

Il suo primo lavoro, “A Change of Heart” era un lungometraggio narrativo ispirato a “Breathless” di Jean-Luc Godard. Ma dopo l’incontro con Jonas Mekas, a seguito della prima del film, inizia a lavorare presso la Film-Makers’ Cooperative, dove entra in contatto con registi d’avanguardia locali. Qui inizia a realizzare lavori più sperimentali giocando con diversi approcci documentaristici. Per “Say Nothing” registrato quindi un pianosequenza di circa mezzora in cui organizza un provino. Poi, ispirato dai fratelli Lumière, debutta nel genere diaristico col suo corto “The New York Miseries”, poi andato accidentalmente distrutto nel 1970.

E sebbene Noren fosse già ormai riconosciuto dalla fiorente cultura cinematografica underground di New York, la maturazione avviene con “Wind Variations” (1968), una meditazione silenziosa di diciotto minuti sul gioco di luci creato dalle tende che si muovono dolcemente nella brezza che entra dalla finestra di un appartamento di Manhattan. Anticipando l’idea di una cinema contemplativo, come sarà poi quello di James Benning, Nathaniel Dorsky, Peter Hutton e Leighton Pierce, “The Wind Variations” rappresentava una sfida anche alle aspettative dei cineasti sofisticati.
Segue quindi il già anticipato “Huge Pupils”, primo della serie “The Adventures of the Exquisite Corpse”, poi completato da “False Pretenses”, “The Phantom Enthusiast”, “Charmed Particles”, “The Lighted Field”, “Imaginary Light”, “Time Being”, “Free to Go (Interlude)” e “Aberration of Starlight”. L’opera sembra quasi dialogare con “Still” (1971) del suo amico e collega Ernie Gehr, il cui “Early Morning” (1967) sembra una piccola premonizione delle sue “avventure”.

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Il completamento dell’opera sarà abbastanza irregolare, fortemente legato alle difficoltà economiche del regista, ma i quattro decenni che intercorrono gli permettono di diventato un virtuoso nel catturare la luce, già per lui soggetto cinematografico essenziale, e suonarne il chiaroscuro. La sua arte diventa quasi una risposta alle notizie in cui il suo impegno reverenziale con il movimento di luci e ombre nelle circostanze più banali offre un’alternativa, quasi un antidoto, al terrore che le notizie possono creare. Per Noren, come per Stan Brakhage, il cinema è una ricerca di illuminazione, di un modo di vedere la Luce, così come la luce, e di condividere questa illuminazione con il pubblico. Non sorprende quindi che le raffigurazioni di Noren delle strade di New York City sembrano spesso in conversazione visiva con “The Wonder Ring” (1955) di Brakhage.

L’approccio generale di Noren in “Charmed Particles”, “The Lighted Field”, “Imaginary Light” è abbastanza coerente. Mentre si muove attraverso il familiare mondo visivo che lo circonda, di solito riprende un fotogramma alla volta, ricreando questo mondo quasi rianimandolo. I ritmi particolari delle sue riprese a fotogramma singolo rendono evidente che Noren non segue mai percorsi semplici e canonici quali possono essere queli di Godfrey Reggio con “Koyaanisqatsi” (1982) e di Ron Fricke  con “Baraka” (1992). Piuttosto che creare effetti impressionanti attraverso delle riprese in time-lapse, le sequenze “stop-action” di Noren sono come registrazioni della sua performance con la telecamera sul palco creato dai paesaggi urbani e naturali in continua trasformazione attraverso la vigile osservazione del quotidiano. Ogni “avventura” è costituita da una serie di sequenze relativamente distinte che vengono realizzate a volte con inquadrature singole in stop-motion, a volte con l’editing in-camera di brevi inquadrature, a volte con pause nell’azione quando una singola inquadratura viene mantenuta per diversi secondi.

 In “Charmed Particles” e “The Lighted Field” ci vengono presentati array relativamente liberi di sequenze distinte e disposte in modo intuitivo, da cui il riferimento del titolo della serie al gioco di società surrealista “Le Cadavre exquis” appare appropriato. Entrambi i film mostrano una serie di sequenze incorniciata da immagini che fanno riferimento metaforicamente all’impresa di Noren nella costruzione dei film, che trasmettono l’idea che il regista vedesse il processo di montaggio come una sorta di sepoltura, o meglio si sentisse ormai esiliato dall’Eden delle riprese.

Se “Charmed Particles” mostra un primo piano dell’occhio di Noren intento a esaminare una pellicola, “The Lighted Field” si apre con un raro e continuo riferimento alle fatiche di Noren come ricercatore di archivi cinematografici. “Imaginary Light”, invece, ha una struttura più complessa, basandosi su tre tipi di immagini, divise chiaramente in due sezioni centrali, racchiuse tra parentesi da un passaggio di immagini a inquadratura singola di Noren mentre che cammina lungo una strada attraverso un bosco. La prima delle due sezioni centrali del film inizia con immagini in time-lapse di ombre che si muovono nel cortile di Noren nella contea di Monmouth, nel New Jersey, per poi passare alle immagini registrate all’interno della casa; la seconda metà del film è composta interamente da riflessi in un torrente. Sentiamo il rintocco di un vecchio orologio che rallenta gradualmente e gli intervalli tra i colpi delle ore si allungano finché, al centro del film il suono si inverte e gli intervalli si accorciano.


All’inizio di “Time Being”, invece sentiamo dei passi avvicinarsi sempre di più, poi bussare a una porta e il suono di una porta che si apre, seguito dal suono del vento e da un’esplosione di luce e colore. Questo passaggio iniziale introduce una spettacolare sequenza cromatica di ombre che scorrono attraverso il cortile e la casa di Noren; poi siamo all’interno della casa, dove la telecamera segue il movimento della luce attraverso pavimenti, mobili e gatti. Questa spettacolare apertura rappresenta una transizione a più livelli: non solo il ritorno del colore per la prima volta in quasi tre decenni, ma un passaggio al cinema digitale, che ha portato a una trasformazione nel processo di Noren e nei tipi di immagini che i suoi film presentano. 

Noren ha continuato a indagare sulle opzioni visive del digitale con “Free to Go” e “Aberration of Starlight” che pur attestando la sua straordinaria etica del lavoro, si allontanano dalla coinvolgente sensualità e intimità delle sue opere precedenti, rivelando di fatto un precoce abbandono alle estasi del piacere sensuale verso un crescente ascetismo. Inoltre, il mondo visivo di “Free to Go” e “Aberration of Starlight” sfrutta la tendenza alla piattezza grafica che sembra intrinseca alla creazione di immagini digitali, come se lo schermo cinematografico fosse veramente un velo o un’illusione.

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“Free to Go” include sequenze straordinarie, notevoli non solo per ciò che rivelano sulle possibilità del cinema digitale, ma anche come gratificazioni sensuali. Dopo un lungo e complesso passaggio iniziale di immagini multistrato in bianco e nero dei viaggi di Noren dentro e fuori Manhattan, un viaggio fondamentale per i ritmi della sua vita e del suo cinema, il passaggio al colore arriva quasi a soprendere lo spettatore. Poi, a metà del film e di nuovo verso la conclusione, le immagini di persone che si muovono per Manhattan appaiono come distorte in astrazioni che rievocano simboli yin-yang.

“Aberration of Starlight” si espande su alcune delle indagini perseguite in “Free to Go”. Noren lavora ancora con immagini in bianco e nero che riprendono il suo tragitto da e per New York, ma  la narrazione raggiunge il suo aspetto più impressionante e drammatico in diversi improvvisi passaggi ben colorati.

Durante le sue “avventure”, mentre gli spettatori affrontano le continue sottili trasformazioni di una particolare scena o sfrecciano attraverso lo spazio e il tempo con Noren, assistiamo a una varietà di allusioni, o almeno evocazioni di altri film. È come se Noren intendesse celebrare il lavoro pionieristico dei suoi colleghi basandosi su ciò che hanno fatto.

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