Un passo alla volta… e insieme


La difficile risalita dall’inferno della tossicodipendenza: affrontare i sensi di colpa, perdonarsi, prendersi la responsabilità di sé stessi e concentrarsi sul desiderio di rimanere IN VITA: «Sono qui perché non ho alcun rifugio da cui nascondermi da me stesso» (la filosofia del Progetto Uomo).

Premessa redazionale
Sul tema delle dipendenze e dei programmi di riabilitazione il “Centro Le Ali Onlus”, da anni, ha esperienza e memoria di una molteplicità di casi critici e finanche drammatici. La parte di rubrica riporta la narrazione di Anna Maria Borghi, Presidente del Centro e l’analisi di Maria Fiorillo, Psicologa Psicoterapeuta a orientamento psicoanalitico.

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Titolo: Un passo alla volta

Autore: Anna Maria Borghi, Presidente del Centro “Le Ali” Onlus

Il frutto di un vissuto concreto. Il dialogo sintetizza il significato primo della filosofia di Progetto Uomo: “Sono qui perché non ho alcun rifugio da cui nascondermi da me stesso”.

Maria: “Ciao sono Maria del Ser.D., qui da me c’è Oleg, non è messo tanto bene, ma chiede di tornare in comunità”.

Anna: “Fallo venire, lo vedo, lo sento e poi decidiamo”.

Oleg viene e non è del tutto lucido, sul viso porta i segni della droga e delle percosse avute. Non ha molto da dire Oleg, non è chiaro sul motivo per cui vuole entrare in comunità, ma dice una cosa…

Oleg: “Fuori non posso stare, non so come affrontare la vita con tutte le sue responsabilità, non so come prendermi cura di me stesso… non da lucido almeno, ma ormai neppure più da drogato… e sicuramente non da solo. Mi arrendo, mi affido, aiutatemi perché io non so farlo”.

Anna: “Irina porta i panni di Oleg perché è rientrato in comunità”

“Sono qui perché non ho alcun rifugio da cui nascondermi da me stesso” Riconoscere la propria impotenza è il primo passo per poterla affrontare, insieme scopriremo che il tuo “mostro” non è solo la sostanza.

Oleg: “Non so prendermi cura di me stesso”.

Questa è la parte più difficile nel tuo percorso di recupero: riconquistare la tua autostima, riconoscere le tue potenzialità e rafforzarle, superare il giudizio negativo, affrontare i tuoi sensi di colpa, diventare responsabile e protagonista delle tue scelte, guardarti attorno e riconoscere quelle che possono essere figure positive e diventare per te una risorsa.

Anna: “Facciamo un passo alla volta insieme. Per oggi guardati allo specchio e apprezza te stesso per quello che sei, un uomo degno di vivere da libero. Valorizza te stesso e riconosci in te il potere di cambiare e di migliorare la tua vita e conferma, osservandoti, il tuo desiderio di restare vivo”.

Anna: “E per oggi fatti la barba…”.

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Titolo: Insieme…

Autore: Maria Fiorillo, Psicologa Psicoterapeuta a orientamento psicoanalitico

“Ci sono ricaduto, perciò questa volta non voglio andarmene, non ce la posso fare da solo. Sono ritornato per capire”.

Questo è uno dei tanti desideri racchiusi nelle parole e negli occhi di Oleg, espressi nei primi giorni di comunità. Desiderio di vita che prende forma in un primo germoglio, ma che deve ritrovare le sue radici per essere concretamente realizzato, ed essere sicuro della terra in cui si trova.

In effetti, il lavoro in comunità è quello di bonificare: recuperando vecchie ferite si ha la possibilità di risanarle e integrarle nella propria storia. Riscoprire la propria singolarità significa poter attingere a risorse uniche e personali che l’uso della sostanza aveva silenziosamente spento.

Alla base di ogni intervento c’è il considerare la persona dietro al sintomo, dietro la dipendenza, la persona che ha bisogno di dare voce e spazio ai suoi pensieri, al suo malessere, e questo viene fatto sia all’interno di un lavoro di gruppo sia attraverso un lavoro personale.

Il lavoro di gruppo permette il rispecchiamento e la condivisione di persone che hanno gli stessi vissuti e che sperimentano nell’auto-aiuto uno strumento capace di mostrare: “che tu solo puoi farcela, ma non da solo”.

Anche il lavoro di anamnesi parte da loro, dal loro sentire ed è strutturato tramite dei colloqui singoli. Ciò permette, attraverso la raccolta delle informazioni sulla storia personale e familiare, sul rapporto con la sostanza e sul disagio della persona, di porsi degli obiettivi concreti su cui lavorare. Questi aspetti si mostrano all’inizio come pezzi di puzzle scomposti, ma riunendo insieme le singole parti pian piano la storia prende forma, grazie alla parola che dà corpo all’immagine, e crea spazio per quello che prima era non dicibile e quindi impossibile a vedersi.

Questo è solo l’inizio del “capire” di cui parlava Oleg, perché dopo c’è bisogno di accoglierlo quel “capire” imparando a gestirsi, a sperimentarsi, ad assumersi le responsabilità dei propri sentimenti, belli e brutti che siano, solo così si potranno prevedere le conseguenze dei propri comportamenti.

Per fare questo bisogna darsi il giusto tempo, fatto di un nuovo sentire che non appartiene alla corsa dell’istintività, ma all’equilibrio del proprio mondo emotivo.

Oleg, però, nei primi giorni corre, è un gomitolo di ansia: “Fammi fare qualcosa, mettimi a lavorare”, mal sopporta i “no” e riesce a fermarsi solo quando legge. Nei gruppi quando non tocca a lui, chiude gli occhi, ma ogni tanto li riapre per vedere se lo sto guardando, per scrutare il mio interesse. Chiude gli occhi non per non vedere ma per farsi guardare.

L’altro giorno l’ho richiamato: “Non puoi agire da solo e chiuderti nella stanza, ci sono anche gli altri, ci sono anche io.”

Oleg si arrabbia, incomincia a parlare velocemente, corre anche con le parole: “Non riesco a controllarmi, aiutami, per capire mi devo fermare, quando iniziamo l’anamnesi?”.

Immagine: Noah Buscher (unsplash)

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