Ricordati che devi morire: l’Eremita dei Tarocchi


Dal mondo classico a quello cristiano: il Dio Saturno divenne l’eremita e la clessidra si fece lanterna. Eppure, nel significato, è probabilmente il tarocco più immutato di sempre.

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Gaudeamus igitur iuvines dum sumus
(Godiamo pertanto dato che siamo giovani)

Mi sono sempre state un po’ antipatiche quelle pitture dove Venere si guarda allo specchio in compagnia del caro figlio Cupido mentre si bea della sua bellezza. Pelle fresca, profumata, liscia… ma non vorrei tediarvi troppo con queste facezie.

Infatti, non io, ma l’Eremita in veste di Saturno sopraggiunge sempre a rompere l’incantesimo con quell’additare con la clessidra che porta con sé che ogni bellezza il Tempo cancella.

Mai nessuno che si faccia gli affari suoi. Lo sappiamo che è così, non necesse est ripeterlo all’infinito. Poiché la Chiesa non vedeva di buon occhio quella Venere nuda, suscettibile di libidine, ritenne opportuno metterle accanto un vecchio decrepito cioè Saturno. Un memento mori fra i tanti dell’insegnamento ecclesiale del tempo.

Nell’ordine originario dei Trionfi dei tarocchi, l’Eremita segue la Ruota e precede l’Appeso, ovvero il Traditore per insegnare all’uomo la necessità di meditare sul reale significato dell’esistenza e di non tradire Dio prima del sopraggiungere della Morte poiché, in caso contrario, la sua anima sarebbe sprofondata nell’Inferno, come la carta del Diavolo, posta dopo lo scheletro, ricorda.

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Nella carta dei Tarocchi Visconti Sforza l’Eremita è raffigurato da un vecchio che si appoggia a un bastone e tiene in mano una clessidra. Nei cosiddetti Tarocchi di Carlo VI il personaggio, privo di bastone, guarda la clessidra che tiene alta in una mano. Un monte in forma stilizzata appare davanti a lui: la sua cima, in quanto vicina al cielo, partecipa al simbolismo della trascendenza, punto di incontro fra cielo e terra e termine dell’ascensione umana. A tale proposito scrive Giovanni della Croce nella Salita del Monte Carmelo (1579-1585):

“L’anima che vuol salire sul monte della perfezione per parlare con Dio deve rinunciare a tutte le cose e lasciarle in basso”.

Nel Tarocchino di Bologna una colonna appare dietro le spalle del vecchio. Questa presenza è connessa all’antica tradizione dell’eremitaggio orientate, cioè allo ‘stilita’. Le colonne facevano parte di una simbologia pagana sulle quali venivano posti gli idoli. Esse, trasformate dagli stiliti in luoghi di elevazione e santificazione cristiana, erano poste nei pressi dei monasteri o dei villaggi ed erano alte dai 10 ai 20 metri.

Il più celebre stilita è considerato Simeone il Vecchio (Cilicia, 390-459) che rimase per ventisette anni su una colonna, operando miracoli e conversioni, ma soprattutto a meditare.

Un altro importante stilita fu Simeone il Giovane, nativo di Antiochia, che visse quarantacinque anni sulla colonna fatta da lui erigere al centro del monastero che aveva fondato sul monte Mirabile. È da osservare che tali colonne erano dotate sulla cima di balcone, parapetto e tettoia e che il cibo veniva loro issato attraverso corde su carrucole.

Inoltre, la colonna rappresenta anche quella ruina citata dal Ripa nel suo cinquecentesco trattato di iconologia, quale effetto consequenziale del trascorrere inesorabile del tempo. Infatti, le raffigurazioni di rovine contemplano quasi sempre una colonna che si erge, sola, fra le macerie.

In alcuni mazzi di Minchiate (il Tarocco Toscano) appare un cervo, animale che traina il Carro del Tempo nelle illustrazioni dei Trionfi del Petrarca. Il rapporto Tempo-Cervo si deve alla credenza nella sua longevità che avevano gli Antichi, anche se Aristotele nell’opera Historia Animalium la smentisce:

“Quanto alla durata della vita del cervo, si favoleggia che sia longevo, ma non v’é nulla di certo che confermi questa leggenda”.

Nelle Minchiate di Firenze e nel Tarocchino di Bologna, l’Eremita è raffigurato secondo il modello iconologico del dio del Tempo, cioè Saturno: un vecchio con le ali (Volat irreparabile tempus) e con grucce (poiché è vecchio, si sostiene).

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Nel Medioevo, grazie alle illustrazioni del De universo di Rabano Mauro, del De Civitate Dei di Sant’Agostino, dell’Ovide Moralisé e del Fulgentius metaforalis, il Dio venne identificato gradualmente con la Sapienza, aspetto che trovò nel neoplatonismo fiorentino e nella tradizione alchemica rinascimentale una delle più alte espressioni del pensiero.

Come Dio del temperamento melanconico il Tempo venne dipinto nelle vesti di San Girolamo e di altri santi eremiti e fu in questo modo che venne successivamente raffigurato nelle carte dei tarocchi. Tale trasformazione fu dovuta anche all’assimilazione della clessidra con la lanterna, tipico oggetto usato dai pellegrini e da alcuni antichi filosofi, come Diogene che andava alla ricerca del famoso uomo, colui in grado di vivere secondo la propria natura, senza essere schiavo delle convenzioni sociali e delle sue regole, ma soprattutto libero dalla fortuna e dalla capricciosa sorte.

Infatti, l’immagine dell’Eremita, associata alla ricerca interiore, risulta in rapporto anche con la Fortuna. Scrive Claudia Cieri Via a questo proposito:

“Ad essa (Fortuna), intesa come caso e vanità delle cose terrene, si oppone la ricerca intellettuale e dunque quei valori contrapposti alla caducità della vita e alla sua connotazione puramente materiale, chiamando in causa tanto l’esistenza escatologica della cultura medievale quanto quella intellettualistica-sapienziale dell’umanesimo italiano”.

Siamo tutti eremiti in hac lacrimarum valle, ma c’è chi piange e chi la snobba, poiché, credendo all’esistenza di una sola vita e sicuri che con la morte ogni cosa perisca, mantengono uno stile godereccio.

Se i versi “gaudeamus igitur iuvenes dum sumus” appaiono comprensibili per la gioventù, divengono ridicoli per quegli anziani che tentano di tutto per apparire più giovani al fine di conquistare docili fanciulle. Il bello è che qualche volta ci riescono.

Ai lettori ‘l’ardua sentenza’.

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