Peter Kubelka, l’avanguardia internazionale


La nuova lingua di suoni e immagini, l’asincronicità e le tensioni. Dall’esistenza autonoma del suono, alla riscoperta della narrazione verbale.

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Peter Kubelka è un artista poliedrico e teorico che ha lavorato nelle forme d’arte del cinema, della cucina, della musica e dell’architettura, diventando all’inizio degli anni Cinquanta un esponente di spicco del cinema d’avanguardia internazionale. I suoi pochi film sono noti per essere montati con cura ed essere estremamente brevi.

Ben conosciuto come un teorico atipico che utilizza elementi non verbali nelle sue lezioni, come musica, cibo, oggetti, strumenti ed espressioni facciali, i suoi film definiscono un linguaggio puramente cinematografico, articolato tra gli elementi del suono e dell’immagine, secondo un linguaggio che, basandosi su formule prestabilite dal suo autore e tese a creare un ordine simbolico, avrebbe preceduto il movimento internazionale del cinema strutturale.

Convinto che i film commerciali non sfruttino appieno le possibilità cinematografiche, nel 1955 realizza “Mosaik In Vertrauen” col quale mostra al pubblico intellettuale di Alpbach una sequenza di immagini prive di significato, accompagnate da musica e rumori che ben non si adattano a esse, lasciando che il luogo della trama e delle sue scene, apparentemente disparate, sia lo schermo. Dalla sequenza discontinua delle immagini, come pure dall’asincronicità di suono e immagine scaturiscono delle tensioni emotive che Kubelka orchestra con assoluta maestria, conferendo al
suono un’esistenza autonoma così potente mentre corre parallelo all’immagine che bisogna ascoltare in modo molto preciso per distinguere tra il primo piano, la via di mezzo e lo sfondo del suono.

La colonna sonora è molto complessa, quasi un collage di diverse trame e toni di suoni che vengono utilizzato per trasformare l’immagine, proprio come accadrà poi in “Unsere Afrikareise”: l’inquadratura di un treno che fa lentamente una curva, formando un arco, viene accompagnata nella colonna sonora da una musica che ricorda allo spettatore un carillon, e improvvisamente l’enorme icona industriale sembra ridursi secondo un conflitto suono/immagine sempre al centro dell’estetica di Kubelka. La sequenza delle immagini salta associativamente, a volte è interrotta da eventi
secondari, a volte si svolge in ordine inverso rispetto a come le cose accadono ordinariamente, e così la storia si compone enigmaticamente come “le pietre di un mosaico”.

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Poi tra il 1956 e il 1960 Kubelka realizza su commissione tre cortometraggi, che avrebbero formato il ciclo in tre parti noto come “Metric Cinema”, dove il tempo viene misurato esclusivamente in termini di lunghezza delle strisce e numero di fotogrammi, in dosi di immagini positive e negative; ogni piano è autonomo e rigorosamente articolato con gli altri per provocare una sensazione piuttosto che una narrazione.

Seguirà nel 1966 “Unsere Afrikareise”, un film dal montaggio complesso tant’è che il regista vi dedicò cinque anni per realizzare un cortometraggio che dura 12 minuti e mezzo. In questo film Kubelka reintroduce alcuni degli elementi che fino a quel momento aveva eliminato, ovvero persone, narrativa, emozioni e immagini che in qualche modo corrispondono al mondo naturale. Commissionato come diario di viaggio per documentare una caccia alla selvaggina, Kubelka utilizza intricate strategie di montaggio che costituiscono una rappresentazione dello sfruttamento
coloniale, in cui la violenza della caccia alla selvaggina è mescolata con altri filmati, suggerendone la violenza contro altri soggetti della telecamera. In particolare, la sequenza finale del film, in cui un uomo indigeno osserva come gli piacerebbe potere visitare il paese del regista se ne avesse la possibilità evidenzia la relazione asimmetrica tra gli etnografi e i loro soggetti.

Dopo una lunga pausa, riprenderà nel 2003 con “Dichtung und Wahrheit” che contiene pezzi raccolti da film pubblicitari con un elemento comune, ovvero il mostrano gli attori prima che inizino a recitare ciò che devono rappresentare. Ripetute riprese “ready-made” creano quindi cicli di significato simbolico quali scorci glorificati della condizione umana contemporanea quasi a preservare l’intera ricchezza delle “informazioni archeologiche”.

Infine, troviamo “Antiphon” (2012) che sembra un “negativo” di “Arnulf Rainer” nello scambiare il nero con il bianco e il silenzio con il suono, tant’è che Kubelka ha descritto i due film come yin e yang. Sebbene le sue opere siano più pertinentemente legate alla scuola viennese nella musica del primo Novecento sia per l’enfasi sulla serializzazione che per le forme brevi e concentrate, i suoi esperimenti di riduzione, con l’obiettivo di definire il mezzo, sembrano riconducibili a preoccupazioni simili dei pittori americani contemporanei, con Kubelka che, come abbiamo visto, condivide in particolare un’enfasi sulle proprietà dell’oggetto specifico stesso e con il confronto dello spettatore con quell’oggetto, rappresentando una grande riscoperta e indagine degli elementi fondamentali del cinema. L’esperienza dei film di Kubelka è quindi sia un’interazione altamente sensuale con questi elementi, purificati e intensificati, sia pure un riconoscimento intellettuale della natura di questi elementi, i cui film, nella loro radicale semplicità e nella loro densità, pongono una sfida alla nostra percezione.

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