Né vinti, né vincitori


Centro-destra in ascesa “capitanato” dalla Lega, ma è impossibile la richiesta del voto anticipato. Le “sardine” a un bivio: sapere organizzarsi in un progetto reale, o sbiadire in “movimento”. Intanto, sbiadiscono proprio i pentastellati.

L’ultima tornata elettorale che ha coinvolto le Regioni Calabria, Emilia Romagna e Basilicata è stata caratterizzata da enormi aspettative e da un risultato, per così dire, storico ma non troppo.

Per quanto concerne le aspettative, era chiara la volontà di Salvini di “notificare” il c.d. “sfratto” al Governo Conte II, nella convinzione per cui la cui maggioranza non produca la reale percezione dell’orientamento politico attuale del Paese.

La prorompente ascesa del Centro destra si era registrata già a partire dalle elezioni europee del 2019, quando la Lega aveva fatto registrare un consenso superiore al 30%, attestandosi come primo partito.

Di contro e rispetto alle elezioni politiche del 2018, già si percepiva il declino di Forza Italia (dal 14% all’8/9%) e del Movimento 5 Stelle (dal 32% al 17%), a fronte di un leggero recupero del Partito Democratico (dal 18% al 22%) rispetto alle politiche del 2018 e di un incremento di consenso in favore di Fratelli d’Italia (4% al 6%) che riusciva a coagulare attorno a sé parte dei reduci del partito di Berlusconi.

Il 27 ottobre 2019 l’Umbria conferma il trend delle elezioni europee: la Lega primo partito con 8 seggi, mentre Fratelli d’Italia beneficia della spinta e ne conquista 2 (uno in più di Forza Italia). La novità delle elezioni umbre è lo storico asse PD/M5S, rimasto un unicum non riproducibile, visti anche i risultati sfavorevoli che, da un lato hanno condannato la coalizione mista ad un 37% rispetto al 57% del Centro destra; dall’altro hanno certificato la discesa del M5S (7%, un seggio in Consiglio).

Per questi motivi, le elezioni regionali in Umbria (prima) Calabria Emilia Romagna (poi), erano diventate una sorta di midterm-test per la verifica dell’orientamento politico del Paese, in particolare nelle due storiche Regioni rosse del Centro Italia.

Conquistata l’Umbria, Salvini si accingeva a mettere le mani sull’Emilia Romagna.

Diverso il discorso della Calabria, dove il Centro destra, ben radicato, ha mantenuto il governo della Regione e Forza Italia non ha registrato il calo vertiginoso che, al contrario, è avvenuto in Emilia Romagna.

Nelle more della campagna elettorale, si è però inserita una variabile che ha reso gli esiti del voto emiliano romagnolo meno prevedibili di quanto già non lo fossero.

Non che la vittoria del Centro destra fosse sicura, ma certamente la rottura dell’asse M5S/PD (che in Umbria aveva generato più danni che benefici) e i sondaggi che davano il Centro destra in pole position lasciavano immaginare uno scenario simile al voto umbro, se non nelle cifre quanto meno nei risultati.

Tuttavia, il movimento delle “sardine”, dapprima sceso in piazza per rivendicare l’esigenza di un dibattito politico meno aggressivo e poi legatosi – ancorché non formalmente – al Partito Democratico, si inseriva nel solco dell’obiettivo primario del Governo Conte II: frenare l’ascesa leghista ed impedire a Salvini di governare una delle Regioni più incisive dal punto di vista politico anche in ragione del progetto del regionalismo differenziato di cui l’Emilia Romagna è una delle Regioni capofila.

Il voto in Emilia Romagna, pur non potendo essere considerato “storico” secondo le intenzioni e le aspettative di Salvini, fornisce delle indicazioni particolarmente suggestive per il prosieguo dello scenario politico italiano.

In primo luogo, il Movimento 5 Stelle non conquista alcun seggio attestandosi tra il 3 ed il 4%, pur continuando a “sopravvivere” (ancorché con affanno), al Sud. Il dato dimostra la scarsa propensione alla lunga vita da parte dei partiti/movimenti populisti, come sostiene il noto politologo Yves Mény.

In secondo luogo, non può nascondersi in ogni caso la crescita esponenziale del Centro destra e della Lega in particolare, se confrontiamo i risultati della precedente tornata. Questo fattore dimostra l’incisività della comunicazione di Salvini che continua a cavalcare l’esigenza più volte esplicitata dagli italiani di avere un uomo forte al Governo e in grado di contrastare l’insicurezza e la pervasività di un’Europa che il cittadino italiano percepisce troppo ingombrante nella vita dello Stato.

In terzo luogo, l’ascesa del voto non controllabile: il voto di piazza. Quel voto che disintegra l’antico detto “Piazze piene, urne vuote”, in considerazione anche dell’affluenza che in Emilia Romagna ha sfiorato il 70%.

Dati alla mano, la partita delle Regioni tra destra e sinistra è oggi in tendenziale parità rispetto ai valori di forza, sebbene non possa nascondersi una leggera prevalenza delle preferenze in favore del Centro destra.

Questo non basta a giustificare le richieste di dimissioni del Governo e/o di scioglimento delle Camere. Non solo oggi, ma anche in futuro.

La richiesta di elezioni anticipate rispetto ai mutevoli orientamenti politici espressi dalle Regioni, dai Comuni e dal Parlamento europeo è fuori dalla Costituzione che, si ricordi, pone lo scioglimento delle Camere solo come extrema ratio e quando sia politicamente, materialmente e matematicamente impossibile individuare una maggioranza attorno ad una personalità incaricata dal Capo dello Stato di formare un Governo.

Di tanto deve tener conto il Presidente delle Repubblica quando si verifica una crisi, parlamentare o extraparlamentare che sia. E, si badi bene, solo in questo caso e non certamente quando gli elettori cambiano idea sul Governo di più Regioni o di più Comuni.

Per non parlare, poi, delle dinamiche europee, completamente avulse rispetto al sistema politico interno; non è un caso che un partito europeista (Forza Italia) sia componente del gruppo PPE in Parlamento europeo, ma in Italia è alleata con una forza dichiaratamente antieuropeista (la Lega).

Gli avvisi di sfratto, così come l’ansia spasmodica del voto anticipato è bene che non diventino regola.

Diversamente, si rischierebbe di votare per il Parlamento una volta ogni due anni. Uno scenario che l’Italia non può permettersi.

Quand’ anche lo l’esito in Emilia Romagna fosse stato diverso, Salvini non avrebbe avuto alcun titolo e alcuna legittimazione costituzionale per “bussare” al Presidente Mattarella.

Alle prossime scadenze elettorali le “sardine” saranno chiamate a dare concretezza alla rivoluzione pacifica nelle piazze: organizzarsi in un partito e proporsi come reale alternativa alla politica che contestano.

Diversamente, il loro destino rischierebbe di somigliare al volo pindarico del Movimento 5 Stelle.

Non ci resta che attendere.