L’estrema concentrazione, il saññāvedayitanirodha


Il massimo grado di concentrazione: già le scritture canoniche buddhiste menzionano un singolare stato contemplativo, il saññāvedayitanirodha, che, se non coincide tout court col nibbāna, vi è perlomeno assai vicino e addirittura comporterebbe la sospensione della respirazione. Perché sarebbe auspicabile una condizione tanto estrema?

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Il saññāvedayitanirodha, vale a dire la “cessazione di percezioni e sensazioni”, anche noto come nirodha-samāpatti, “ottenimento della cessazione”, è il più elevato grado di concentrazione (samādhi) noto al buddhismo antico. Pur essendo attestato già entro il Canone in una quantità significativa di luoghi testuali, ivi il nirodha non è stato oggetto di discussione sistematica e approfondita qual è dato trovare in due manuali di contemplazione composti nei primi secoli dell’era volgare, ovvero il Vimuttimagga e il Visuddhimagga.

Nel XXIII capitolo del Visuddhimagga, il suo autore, Buddhaghosa, afferma la raggiungibilità del nirodha soltanto da parte di anāgāmi e arahant – corrispondenti ai due più alti gradi di risveglio – padroneggianti gli otto livelli di assorbimento meditativo (jhāna) e al contempo praticanti della visione profonda (vipassanā). Se nel Canone non si trovano istruzioni particolareggiate sulla maniera pratica di elevazione interiore fino al sommo grado di samādhi, nel Visuddhimagga finalmente queste preziose informazioni vengono fornite: la pratica volta in direzione del saññāvedayitanirodha si svolge alternando samatha e vipassanā (Vism XXIII, 43), vale a dire entrando nei jhāna e – dopo esserne emersi – contemplandone la natura condizionata (saṅkhata) rivelata dalle “tre caratteristiche universali” (tilakkhaṇa) comuni a tutto ciò che è composto: “impermanenza” (anicca), “carattere insoddisfacente” (dukkha) e “non-sé” (anattā).

Se dal punto di vista mentale il nirodha si caratterizza come singolare stato di sospensione dell’apparato psicologico cosciente del praticante, dal punto di vista fisico dà luogo ad una condizione simil-letargica, in cui peraltro persino il processo respiratorio dicesi sospeso.

È dunque impreteribile la questione: cosa mai vi è di auspicabile nel raggiungere una condizione così estrema?

La “cessazione”, prefigurando l’arresto definitivo di tutti i processi psicofisici (khandha) che si verifica dopo la morte di un arahant, è auspicabile per avere un assaggio in vita dell’anupādisesa-nibbāna (“nibbāna senza residuo”, cosiddetto in quanto manca di quel residuo che è dato dai cinque khandha). Non a caso, una citazione contenuta nel Visuddhimagga (XXIII, 52) parla del nirodha proprio come “nibbāna in vita”, secondo la traduzione di Antonella Serena Comba. Notoriamente, il Buddha si rifiutò di rispondere alle domande sul destino post mortem di un liberato, rigettando tutte le possibilità logiche del tetralemma (esiste, non esiste, esiste e insieme non esiste, né esiste né non esiste); pure, poiché il nirodha tra gli stati conseguibili in questa stessa vita è quello che più si avvicina alla liberazione finale, si può sostenere che l’arahant che lo consegue conosca in prima persona cosa lo attende dopo la morte, quasi con perfetta precisione, poiché a differenziare il nirodha dal nibbāna finale è la persistenza, tra i khandha, del solo rūpakkhandha.

La prefigurazione dell’estinzione ultima che il saññāvedayitanirodha invera è, insomma, quasi totale e comunque la maggiore possibile mentre si è ancora in vita.

Consigli bibliografici: Arbel, K. (2004), The Attainment of ‘Cessation of Perception and Feeling’. A Study of Saññāvedayitanirodha in the Pāli Nikāyas, MA dissertation, University of Bristol; Griffiths, P. (1983), On Being Mindless: The Debate on the Re-emergence of Consciousness from the Attainment of Cessation in the Abhidharmakośabhāsyaṃ and its Commentaries, in Philosophy East and West 33, pagg. 379-94; ID. (1986), On Being Mindless: Buddhist Meditation and the Mind-Body Problem, Open Court Publishing Company; King, W. (1987), La Meditazione Theravāda. La Trasformazione Buddhista dello Yoga, Astrolabio-Ubaldini.

Foto di Julie Ricard su Unsplash

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