Conversione di un economista


L’Economia è utile solo se ci aiuta a comprendere la realtà. La dura lezione della crisi del 2007: il crollo delle illusioni offerte dai modelli e la necessità di evolvere oltre sistemi incapaci di comprendere l’“uomo” e il “tempo”.

Sono diventato economista per sbaglio. I maligni diranno che lo si può dedurre dalla qualità dei miei scritti. A me piace credere ai bizzarri sentieri del Destino su cui incespicano i voli della libertà individuale.

Vorrei legare qui la mia esperienza personale, di poco interesse per il lettore, al ben più interessante tema del dibattito in corso in seno alla scienza economica. Com’è noto, infatti, in particolare a partire dalla crisi iniziata nel 2007, è andata crescendo una certa disillusione sulla capacità degli economisti di ‘prevedere’ il corso degli eventi; se forse chiedere agli economisti di prevedere qualcosa è spingerli all’interno della sfera del magico cui non appartengono, forte è invece lo scontento rispetto alla loro capacità di spiegare gli eventi in corso. Se i bellissimi e formalissimi modelli matematici sviluppati nel corso di decenni non servono a prevedere il futuro – a stupirmi è che qualcuno ci abbia creduto – essi mancano anche di utilità ex-post, nel momento ermeneutico. Insomma, non servono a granché.

Torneremo, nel corso di questa rubrica, sulle diverse mancanze della cosiddetta economia mainstream, o neoclassica, cercando anche di suggerire alcuni spunti per costruire un’alternativa.

Qui vorrei prima soffermarmi sul momento in cui mi resi conto che qualcosa non andava. Mi iscrissi alla facoltà di economia dell’Università di Verona nel 1999, dopo due anni fallimentari trascorsi presso il corso di laurea in informatica (nel 2012 ho sposato una ragazza indonesiana laureata in informatica, così da compensare quella mancanza). La scelta fu un po’ un ripiego, una sorta di ultima spiaggia che mi ricollegava ai miei studi superiori di ragioneria. Nella primavera del 2000, dovendo scegliere un esame a scelta, puntai su storia del pensiero economico, che mi sembrava funzionale ad altri esami; quell’anno il titolare della cattedra era in anno sabbatico e il corso venne tenuto dal prof. Sergio Noto, che tutt’ora lavora presso l’ateneo scaligero. Per farla breve, quel corso – svolto in quel modo dal prof. Noto – fu l’inizio di una passione; in particolare fui colpito da Joseph Schumpeter, economista a cui dedicai i miei anni migliori e che ancora non mi ha abbandonato (1).

Noto e Schumpeter (economista austriaco di nascita ma non di scuola) furono la mia chiave di ingresso per la cosiddetta scuola austriaca di economia e sulla quale tornerò in futuro.

Intanto, alcuni miei video sull’argomento:

A) https://www.youtube.com/watch?v=5Au2AV_uvrw&t=491s;

B) https://www.youtube.com/watch?v=YclhCduLKs8&t=336s;  

C) https://www.inderscience.com/info/inarticle.php?artid=101727.

Oltre a divorare Schumpeter, cominciai a fare incetta di libri della e sulla scuola austriaca; l’esperienza che davvero cambiò in modo radicale il mio percorso di studi fu la lettura de L’economia del tempo e dell’ignoranza, di Gerald O’Driscoll e Mario J. Rizzo, pubblicato in Italia da Rubbettino nel 2002, ma uscito originalmente nel 1995. Solo dopo molti anni scoprii che si trattava di uno dei volumi fondamentali della più giovane generazione di economisti ‘austriaci’, in particolari per coloro che si consideravano allievi di Ludwig Lachmann, ma al tempo ne rimasi istintivamente folgorato anche senza poterlo collocare all’interno del suo contesto.

L’economia del tempo e dell’ignoranza

A catturarmi fu un esempio, che ho poi ripetuto per anni ai miei studenti o duranti i miei seminari; come chi ha studiato economia sa, la definizione da manuale di “concorrenza perfetta” è quella di un sistema economico in cui il numero di compratori e venditori è così elevato che nessuno è in grado di discriminare sul prezzo, tutti producono la stessa cosa con le medesime caratteristiche e la tecnologia è data. Gli autori commentavano più o meno così: «ma, scusate, un sistema in cui nessuno discrimina sul prezzo, i prodotti sono tutti identici in termini di caratteristiche e non ci sono differenze di tecnologia non è forse il socialismo? La parola ‘concorrenza’ non suggerisce forse qualcosa di più dinamico, come nello sport (in inglese concorrenza si dice competition), dove qualcuno vince in virtù di una differenza, sia essa sul prezzo, sulla qualità, sulla tecnica, sul marketing, sulla fortuna, etc.?».

Questo esempio fu per me un’epifania. Il mio manuale di microeconomia, ma in fondo tutti quelli in commercio, forniva una definizione di concorrenza perfetta che meglio si apprestava a descrivere l’esatto contrario della concorrenza, ovvero il socialismo. Da allora cominciai a studiare con maggior senso critico e cercai di costruirmi un bagaglio alternativo fondato sugli insegnamenti della scuola austriaca di economia. Peraltro, quello spirito critico mi sarebbe servito anche in seguito proprio per edificare anche una sorta di mia personale visione all’interno della scuola di riferimento, e oggi mi trovo ad essere un eterodosso all’interno di una scuola eterodossa.

L’importante lezione che trassi da quella ‘epifania’ non fu soltanto di approcciarmi allo studio in modo maggiormente critico; rimasi persuaso soprattutto del fatto che l’economia è utile se ci aiuta a comprendere meglio la realtà. Certo, un livello di astrazione è necessario, ma non a scapito del potere esplicativo.

Insomma, mi convinsi che l’economia più in voga, che oggi è soprattutto econometria, ragiona più o meno così: prendiamo la realtà, svuotiamola dell’elemento umano (che è creatività, imprevedibilità e non-determinismo) e del fluire del tempo (che è conduttore di novità imprevista), e costruiamo dei modelli formali molto eleganti in cui tutto torna perché ciò che si vuole spiegare è già incluso nelle ipotesi di un modello statico.

Ma cosa ce ne facciamo di un’economia senza tempo e senza uomo, cioè senza ignoranza? Poco o niente, appunto.

Con questi caratteri determiniamo il “viaggio nella scienza economica” che percorreremo nel corso della rubrica.

Note:

  • Quattro le cose principali che ho pubblicato su Schumpeter:
  • Entrepreneurship and capital formation between Schumpeter and Kirzner, in C. Buscema (ed.), Schumpeter beyond Schumpeter. The multiple facets of development, Riga, Scholar’s Press, 2018, pp. 78-113 (https://www.amazon.com/Schumpeter-beyond-multiple-facets-development/dp/6137997235/);
  • Entrepreneurship: State of Grace or Human Action? Schumpeter’s Leadership vs Kirzner’s Alertness, «European Journal of Economic and Social Systems», 27, 1-2, 2015, pp. 11-36;
  • The Natural Cycle: Why Economic Fluctuations are Inevitable. A Schumpeterian Extension of the Austrian Business Cycle Theory, «Journal of Reviews on Global Economics», 3, 2014, pp. 200-219 ((http://dx.doi.org/10.6000/1929-7092.2014.03.16);
  • Sylos Labini’s Unpublished Notes on Schumpeter’s Business Cycles,«The Quarterly Journal of Austrian Economics», 14, 1, 2011, pp. 88-129 (https://mises-media.s3.amazonaws.com/qjae14_1_6.pdf).

Il mio modello del ciclo naturale, fortemente influenzato da Schumpeter e Hayek, è stato da me applicato all’analisi della grande crisi del 2007 (https://www.amazon.com/European-Crisis-WEA-Books/dp/1848902085) e del mercato immobiliare malese (www.ideas.org.my › uploads › 2018/07 › P151-AffordableHomes e https://www.youtube.com/watch?v=n172JC4BBiU&t=94s).  

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