Cinema al sapor diario: crudo e duro.


Negli anni ’80 il cinema diaristico: film-cronaca di ogni aspetto del quotidiano, tra meraviglie e agghiaccianti inquietudini. Crudo e diretto. Charlotte Robertson spodesta Jonas Mekas, suscitandone ammirazione.

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Iniziato nei primi anni ’80 e durato oltre trentotto ore di film in Super 8, “Five Year Diary” (1981-1997) di Anne Charlotte Robertson,  allieva di Saul Levine e vicina ai lavori di Ed Pincus, si pone come una delle opere più importanti del cinema diaristico.

I film sono una cronaca intima ed esaurientemente narrata della sua vita quotidiana a Framingham, nel Massachusetts, e delle sue battaglie contro la depressione, la paranoia e la schizofrenia borderline, documentando pure l’internamento nei centri psichiatrici.

Coprendo un numero variabile di giorni, ogni episodio dura ventisette minuti, circa otto rullini fotografici, e il diario è lungo ben ottantatré bobine. Mentre filma i suoi sentimenti e le sue esperienze con un approccio intimo, diretto, crudo e non privo di umorismo, i diversi strati sonori, in particolare la voce del regista, generano una riflessione emotiva, introspettiva e saggistica sulla sua vita tale da suscistare l’ammirazione di Jonas Mekas che si dichiarerà come spodestato dal genere diarista cinematografico.

Il maestro del genere rimase impressionato dall’abilità di Robertson stessa di interagire con la propria memoria per commentare nuovamente le scene, riosservandosi a distanza di tempo in un percorso di analisi che appare ben più di un diario stratificato.

Robertson sembra partire dalla classica forma del diario scritto, estendola per includere tecniche di produzione cinematografica documentaria, sperimentale e animata. Ritroviamo ricorrentemente il romanticismo, o talora la sua assenza, l’ossessione e il ciclo della vita mentre che seppellisce i membri della propria famiglia come pure i suoi amati gatti.

Ancora nota il cambio delle stagioni, contempla il suicidio e si strugge per la sua cotta per la celebrità Tom Baker. Non evita mai quindi di esporre parti della sua situazione fisica o della sua vita emotiva, condividendo esperienze e osservazioni sull’essere vegetariana, i suoi gatti, l’orto biologico, il cibo e le sue lotte con il peso, le sue dipendenze da fumo e alcol, povertà e depressione.

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Dietro alla persona e al suo crescere ritroviamo l’essenza stessa del cinema nella sua fascinazione di un intenso flusso emotivo e continuo. “The Five Year Diary” offre un’importante registrazione della continua evoluzione creativa di Robertson come artista che ha sperimentato incessantemente varie tecniche e approcci nel corso della sua carriera per creare un’opera complessa che spazia dal confronto ed emotivamente crudo al liricamente silenzioso e sobrio.

Oltre a “Five Year Diary” (1981-1997), Robertson ha realizzato altri trenta cortometraggi, per lo più diaristici, tra cui “Apologies” (1990), “Talking to Myself” (1985), “Magazine Mouth” (1983) e “Melon Patches, or Reasons to Go on Living” (1994). I film di Robertson, oggi ospitati presso l’Harvard Film Archive, sono potenti documenti artistici di autoanalisi acutamente incisiva e spirito caustico mentre si lotta con una malattia spesso debilitante.

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