Peter Russell: poetica di una vita


Le esperienze con il mio mentore Russell, quel genio rivoluzionario del Novecento, che si ritirò dal Nobel e fu amico fraterno di Ezra Pound. Infine, la decisione di: «trasformarsi in energia», lasciando un corpo ormai vecchio e invalido, per rinascere oltre.

Ho conosciuto Peter Russell in una limpida giornata di primavera di molti anni fa.

Di certo è stato un momento fondamentale per la mia vita.

In modo naturale gli avevo indirizzato tempo prima un biglietto di auguri natalizi, certa che non avrei avuto mai risposta o se questa ci fosse stata, sarebbe stata una risposta di cortesia. Non sapevo nulla sulla sua vita privata, conoscevo solo la sua grandezza, la luminosità della sua Poesia.

Invece ricevetti una lettera garbata, breve ma cordiale, scritta con una grafia minuta e nervosa, in cui il Poeta si diceva felice del mio contatto e mi invitava a quella conoscenza che nel tempo avrebbe definitivamente condizionato il verso della mia vita.

Già anziano ma assolutamente autosufficiente e vitale, nella assidua corrispondenza che iniziammo, mi parlava dei suoi progetti immediati, dei prestigiosi convegni nazionali e internazionali a cui partecipava come ospite e relatore, dei conflitti che aveva vissuto con le Istituzioni, dell’insofferenza verso le “Accademie”; del suo dolore per la condizione di disagio affettivo del giovane figlio Peter George che viveva con lui nel vecchio mulino di Pian di Scò in provincia di Arezzo, in cui si era stabilito all’inizio degli anni ’90.

Inizialmente imbarazzata per tale disponibilità nei miei confronti, più tardi capii che Peter Russell aveva il dono speciale di saper vedere “fra le righe”: aveva intuito sin dalla mia prima lettera che io lo avevo contattato solo per amore della Poesia, semplicemente.

Sapeva leggere nel cuore, il Prof. Russell, Lui che nella sua lunga vita di cuori ne aveva letti tanti. Dai più grandi letterati (allievo e grande amico di Ezra Pound, di Elliot, di Hemingway, di Pasternak, di Katleen Raine e tanti altri) agli uomini semplici e di buona e cattiva volontà.

Volava alto Peter Russell con la sua risata allegra e sorniona, col suo meraviglioso accento inglese, anche nel cuore delle donne (ne avrà avuto molte, presumibilmente, oltre alle due mogli, la prima birmana, la seconda americana, da cui ha avuto quattro figli).

Una curiosità intellettuale mai paga, che ad ottant’anni lo rendeva vivace come un bimbetto di sei anni, come amava dire lui; a sei anni infatti, conoscendo già il latino, aveva deciso di diventare Poeta. Capiva che il mondo sarebbe stata la sua casa, ed il mondo infatti girò, capiva che avrebbe trascorso forse tutta la vita (ma ci sarebbe riuscito, alla fine? Era il suo dubbio) a “cercare di costruirsi un’Anima” (come spesso amava ripetermi) ed infatti, appena dopo la II guerra mondiale, durante la quale aveva combattuto in Birmania per la Corona d’Inghilterra, si trasferì a Firenze dove frequentava l’Università e i circoli intellettuali più noti dell’epoca.

Celeberrima la sua frequentazione di “Le giubbe rosse” a Firenze, dove conobbe Ungaretti – che gli era antipatico –, Montale ed ebbe la folgorazione con Hemingway, col quale avrebbe approfondito una speciale amicizia a Venezia, verso la metà degli anni ’50.

Si costruiva un’Anima, il nostro Poeta, ma lavorava sodo e viaggiava anche. Fondò a Londra una casa editrice e la rivista Nine. Fu in quegli anni che combatté la sua lotta per la riabilitazione sociale del poeta Ezra Pound – di cui ho letto commoventi lettere indirizzate a Russell ed ascoltato molto – internato per oltre 10 anni in manicomio. Una volta uscito, amò molto la compagnia del giovane Russell fino alla sua morte, avvenuta pochi anni dopo.

Ho visto il Prof. Russell piangere per il Maestro Pound, l’ho visto piangere per suo figlio Peter George che si porta dietro il trauma di essere nato in Iran e di essere dovuto rocambolescamente fuggire neonato insieme al perseguitato papà, poeta dissidente, all’epoca – 1978 – professore di filosofia occidentale all’Università di Teheran.

Profondo studioso di linguistica (conosceva oltre cento lingue e ne parlava correntemente una ventina) cultore di antropologia e sociologia, cugino in secondo grado di Bertrand Russell, si arrabbiava molto quando qualche giornalista sprovveduto gli affibbiava un fantomatico Premio Nobel per la letteratura (era stato candidato, ma la sua candidatura fu ritirata da lui stesso, per polemiche burocratiche!).

Ho visto piangere Peter Russell per la condizione di povertà culturale in cui versa in questo tempo la poesia, che per lui è un grande “potenziale di rinnovamento spirituale”. Amava i giovani, tanto, e girava le più grandi università, come la più modesta scuola di provincia per parlare ad essi, con lo stesso entusiasmo e gli stessi occhi (memorabile il saggio “La poesia: essenza della vita” del febbraio 2000 per l’Istituto Magistrale “Chini” di Lido di Camaior).

Non l’ho mai sentito parlare da “anziano” del forte disagio economico in cui ha versato in modo particolare negli ultimi anni della sua vita, ed ogni piccolo aiuto era una gioia per lui.

Nel dicembre del 2002, durante una telefonata, mi disse: «La mente è giovane, mia cara, le idee sono tante, ma ho paura che il corpo non voglia vivere più, non ho più gli occhi per guardare la bellezza ed immaginarla non mi basta, mi rende la vita insopportabile». Era oramai cieco da mesi e disabile.

C’era serenità nella sua voce, ma sentii che si avvicinava la sua partenza, stava decidendo di andare via, di “trasformarsi”. Come amava dirmi spesso della morte, che è una trasformazione d’energia: «non può finire la vita così perfetta, può solo trasformarsi».

Un mese dopo, mi ha lasciato, ma in questa dimensione, certo, perché anche mentre ora scrivo, lui mi siede accanto, fumando le sue terribili sigarette e sorridendomi beatamente, sornione e fascinoso come il tempo che non l’ha mai sfiorato, sublime e luminoso come la Poesia che ha sognato (Franco Loi lo ha definito “poietés”- ossia, facitore di misteriose risonanze ), quella: «poesia, – come diceva -, che non fa accadere nulla, ma rappresenta la coscienza del sé, un atlante della mente, che proietta nella visione di possibili mondi, visione trascendente e infinita di attimi finiti, del nostro tempo finito: immutabilità come attesa, il sogno come condizione necessaria del reale, consapevolezza dell’impotenza, desiderio della nascita (rinascita) del proprio essere Poeta».

Immagine:

Foto scattata il 25 aprile 2000 a Venafro (Isernia) in occasione del Premio Nazionale “Venafro” in cui Russell fu premiato per il suo libro “La sorgente prosciugata”. Lo si vede fuori la Chiesa dell’Annunziata a firmare alcune copie del volume. L’immagine ingrandita si focalizza su Russell e Maria Pia De Martino, con poco dietro la madre Vera Liccitti, anche lei grande amica di Peter Russell.  Erano gli ultimi anni di vita del grande poeta.

Peter Russell con Maria Pia De Martino e sua madre

Nota redazionale

Maria Pia De Martino, allieva del Russell e principale esponente della corrente russelliana in Italia, dopo la breve introduzione concernente la parte “storicamente nota” della vita del suo mentore (link all’articolo “Vita di Peter Russell“), ha redatto una preziosa testimonianza sugli aspetti privati, arricchendo il personaggio di una profondità inedita, o di certo poco conosciuta oltre la cerchia degli amici intimi. 

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