La Morte, il Medioevo e l’iconologia dei Tarocchi


«Io sono la morte degna di corona, che ha possanza sopra ogni persona». Storia e immagini della morte, nei vari tipi dei tarocchi storici. Evoluzioni di filosofia e simboli.

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Se fino all’inizio del sec. XIV la morte era concepita come un evento casuale che permetteva l’ingresso verso la vera vita, si assistette dalla metà del Trecento in poi attraverso le pratiche dell’Ars Moriendi, consistenti negli esercizi della ‘Buona Morte’, a una meditazione sul destino fisico dell’uomo. Nacque così, attraverso il ribrezzo e la paura nel pensare al proprio corpo in putrefazione, il senso del macabro.

Si impose una raffigurazione nuova e autonoma: quella della Morte, cavaliere impetuoso che fa strage, raffigurazione di un potere che agisce non tanto al servizio di Dio, ma per propria iniziativa. Un potere universale che si esercita indistintamente su tutti gli uomini:

“È una forza impersonale, né benigna né maligna, senza alcun carattere demoniaco o divino. È imparziale e non assolve nessuna funzione etica; è il simbolo di una legge che si applica a ogni uomo senza scampo e senza motivazioni morali: è l’inesorabile finitezza umana divenuta coscienza collettiva, è il rimpianto per la gioia del corpo e dei sensi”.

Questa disperata consapevolezza della propria caducità, completamente al di fuori degli schemi della cristianità medievale, sul piano dell’iconografia pittorica viene espressa dalla Danza Macabra “una delle prime manifestazioni corali della nuova cultura laica”, in cui “tutta la società celebra il suo acre incontro con la finitezza”.

Fra le immagini legate al concetto memento mori ricordiamo le danze macabre sviluppatesi intorno al primo quarto del XV secolo dapprima con intenti moralistici poi come satira contro la corruzione e il fasto delle classi agiate dove la morte in forma di scheletro suonando strumenti del tempo a ritmo di danza conduce uomini di ogni estrazione verso la tomba (figura 1 – figura 2 – Hans Holbein il Giovane, xilografie, 1547).

La Morte danzante che trascina nel suo ballo del trapasso l’intera umanità fu fra l’altro motivo ispiratore per molti musicisti sin dal Medioevo. Stefano Landi musicò nel sec. XVII una celebre passacaglia detta Della vita i cui versi recitano:

 “O come t’inganni / se pensi che gl’anni / non hann’ da finire / bisogna morire. / È un sogno la vita / che par si gradita, / è breve il gioire, / bisogna morire. / Non val medicina, non giova la China, / non si può guarire, bisogna morire. / Non vaglion sberate, / minarie, bravate / che caglia l’ardire, / bisogna morire. / Non si trova modo / di scioglier ‘sto nodo, / non val il fuggire, / bisogna morire. / Commun’è il statuto / non vale l’astuto / ‘sto colpo schermire, / bisogna morire. / Si more cantando, / si more sonando / la Cetra, o Sampogna, / morire bisogna. / Si more danzando, / bevendo, mangiando; / con quella carogna / morire bisogna. / La Morte crudele / a tutti è infedele, / ogn’uno svergogna, / morire bisogna. / È pur ò pazzia / o gran frenesia, / per dirsi menzogna, / morire bisogna. / I Giovani, i Putti, / e gli Huomini tutti / s’hann’a incenerire /, / bisogna morire. / I sani, gl’infermi, / i bravi, gl’inermi, / tutt’hann’a da finire / bisogna morire. / E quando che meno / ti pensi, nel seno / ti vien a finire, / bisogna morire. / Se tu non vi pensi / hai persi li sensi, / sei morto e puoi dire: / bisogna morire”.

Un ulteriore memento mori è rappresentato dalla Leggenda dei tre vivi e dei tre morti in cui tre personaggi che in vita erano stati ricchi e potenti, parlano di sé stessi e della propria vanitas ad altrettanti vivi di alto rango. Tendenzialmente i vivi sono raffigurati come persone giovani in atto di cacciare seguiti dai propri cani, mentre i morti appaiono distesi nelle bare oppure in piedi, a volte rappresentati in tre fasi di decomposizione progressiva. In alcune raffigurazioni, appare anche un’asceta che addita ai vivi la presenza dei morti (figura 3 – Leggenda dei tre vivi e tre morti, affresco, inizio sec. XIV, Sacro Speco, Subiaco).

Se fino all’inizio del sec. XIV la morte era concepita come un evento casuale che permetteva l’ingresso verso la vera vita, si assistette dalla metà del Trecento in poi attraverso le pratiche dell’Ars Moriendi, consistenti negli esercizi della ‘Buona Morte’, a una meditazione sul destino fisico dell’uomo. Nacque così, attraverso il ribrezzo e la paura nel pensare al proprio corpo in putrefazione, il senso del macabro.

Si impose una raffigurazione nuova e autonoma: quella della Morte, cavaliere impetuoso che fa strage, raffigurazione di un potere che agisce non tanto al servizio di Dio, ma per propria iniziativa. Un potere universale che si esercita indistintamente su tutti gli uomini: 

“È una forza impersonale, né benigna né maligna, senza alcun carattere demoniaco o divino. È imparziale e non assolve nessuna funzione etica; è il simbolo di una legge che si applica a ogni uomo senza scampo e senza motivazioni morali: è l’inesorabile finitezza umana divenuta coscienza collettiva, è il rimpianto per la gioia del corpo e dei sensi”. 

Questa disperata consapevolezza della propria caducità, completamente al di fuori degli schemi della cristianità medievale, sul piano dell’iconografia pittorica viene espressa dalla Danza Macabra “una delle prime manifestazioni corali della nuova cultura laica”, in cui “tutta la società celebra il suo acre incontro con la finitezza”.

Fra le immagini legate al concetto memento mori ricordiamo le danze macabre sviluppatesi intorno al primo quarto del XV secolo dapprima con intenti moralistici poi come satira contro la corruzione e il fasto delle classi agiate dove la morte in forma di scheletro suonando strumenti del tempo a ritmo di danza conduce uomini di ogni estrazione verso la tomba (figura 1 - figura 2 - Hans Holbein il Giovane, xilografie, 1547). 

La Morte danzante che trascina nel suo ballo del trapasso l’intera umanità fu fra l’altro motivo ispiratore per molti musicisti sin dal Medioevo. Stefano Landi musicò nel sec. XVII una celebre passacaglia detta Della vita i cui versi recitano:

 “O come t’inganni / se pensi che gl’anni / non hann’ da finire / bisogna morire. / È un sogno la vita / che par si gradita, / è breve il gioire, / bisogna morire. / Non val medicina, non giova la China, / non si può guarire, bisogna morire. / Non vaglion sberate, / minarie, bravate / che caglia l’ardire, / bisogna morire. / Non si trova modo / di scioglier ‘sto nodo, / non val il fuggire, / bisogna morire. / Commun’è il statuto / non vale l’astuto / ‘sto colpo schermire, / bisogna morire. / Si more cantando, / si more sonando / la Cetra, o Sampogna, / morire bisogna. / Si more danzando, / bevendo, mangiando; / con quella carogna / morire bisogna. / La Morte crudele / a tutti è infedele, / ogn’uno svergogna, / morire bisogna. / È pur ò pazzia / o gran frenesia, / per dirsi menzogna, / morire bisogna. / I Giovani, i Putti, / e gli Huomini tutti / s’hann’a incenerire /, / bisogna morire. / I sani, gl’infermi, / i bravi, gl’inermi, / tutt’hann’a da finire / bisogna morire. / E quando che meno / ti pensi, nel seno / ti vien a finire, / bisogna morire. / Se tu non vi pensi / hai persi li sensi, / sei morto e puoi dire: / bisogna morire”.
 
Un ulteriore memento mori è rappresentato dalla Leggenda dei tre vivi e dei tre morti in cui tre personaggi che in vita erano stati ricchi e potenti, parlano di sé stessi e della propria vanitas ad altrettanti vivi di alto rango. Tendenzialmente i vivi sono raffigurati come persone giovani in atto di cacciare seguiti dai propri cani, mentre i morti appaiono distesi nelle bare oppure in piedi, a volte rappresentati in tre fasi di decomposizione progressiva. In alcune raffigurazioni, appare anche un’asceta che addita ai vivi la presenza dei morti (figura 3 - Leggenda dei tre vivi e tre morti, affresco, inizio sec. XIV, Sacro Speco, Subiaco). 

Se l’abbondante presenza di teschi e scheletri nella tradizione greco-romana richiama un memento vivere, quelli indicati dalla carta dell’Eremita rappresentano piuttosto un memento mori quindi un cave peccatum, cioè un ‘attenti al peccato’. La celebre canzone monodica in forma di danza facente parte delle composizioni presenti nel Llibre Vermell [Libro Rosso] de Montserrat del 1399, contiene parole aderenti a questo concetto:
 
Ad mortem festinamus                                                                              
Ci affrettiamo verso la morte
Peccare desistamus                                                                                     
Desistiamo dal peccare
Scribere proposui                                                                                         
Mi sono promesso di scrivere
De contemptu mondano                                                                             
Sul disprezzo del mondo
Ut degentes seculi non mulcentur in vano                                            
Affinché non danneggi invano chi ci vive nei secoli
Iam es hora sugere a sompno mortis pravo                                          
Già è ora di svegliarci dal cattivo sonno della morte
Ad mortem festinamus                                                                          
Ci affrettiamo verso la morte
Peccare desistamus                                                                                     
Desistiamo dal peccare
Vita brevis breviter in brevi finietur                                                         
La vita breve brevemente finisce
Mors venit velociter                                                                                     
La morte arriva velocemente
Que neminem veretur                                                                                 
che non teme nessuno
Omnia mors perimit                                                                                    
La morte annienta tutto
Et nulli miseretur                                                                                         
E non ha compassione di nessuno
Ad mortem festinamus                                                                                
Ci affrettiamo verso la morte
Peccare desistamus                                                                                     
Desistiamo dal peccare
Ni conversus fueris et sicut puer factus                                                   
Se non ti convertirai e non sarai (casto) come un fanciullo
Et vitam mutaveris in meliores actus                                                       
E non trasformerai la vita in azioni migliori
Intrare non poteris regnum Dei beatus                                                  
Non potrai entrare beato nel regno di Dio
Ad mortem festinamus                                                                               
Ci affrettiamo verso la morte
Peccare desistamus                                                                                    
Desistiamo dal peccare
ecc.

L’immagine più usuale con la quale la morte venne raffigurata è quella di uno scheletro armato di falce, strumento che lo connette a Chronos il Dio del tempo, il quale diventa strumento ausiliario della morte. Si può trovare inoltre con in mano un arco o una spada. Una bella immagine di uno scheletro intento a colpire con arco e frecce si trova nella raffigurazione del Trionfo della Morte presso l’Oratorio dei Disciplini di Clusone dipinto nel 1484 o 1485 da Giacomo Borlone de Buschis. Lo scheletro, a destra della Morte Trionfante, incocca tre frecce (peste, fame, guerra) mentre alla sinistra della stessa, un altro scheletro fulmina gli astanti con un archibugio (figura 4).

La Morte mantiene la falce nel caso venga raffigurata a cavallo, nel ruolo di uno dei ‘Quattro Cavalieri dell’Apocalisse’ (figura 5 - Anonimo, xilografia, sec. XVI) oppure nelle raffigurazioni del trionfo petrarchesco in cui è assisa, con in mano la falce, sopra un carro guidato da buoi psicopompi (dal greco ψυχοπομπóς, da psyche - anima - e pompós - colui che conduce) il cui compito è quello di accompagnare le anime dei morti nel loro viaggio dopo la morte (figura 6 - Philip Galle, Trionfo della Morte, acquaforte, sec. XVI). 
I personaggi che accompagnano il suo carro e che vengono calpestati dai tori appartengono a classi sociali ricche e potenti, siano essi laici o religiosi, persone che per i loro privilegi erano in grado di vivere agiatamente e a cui la morte appariva molto più devastante di quanto non lo fosse per quei miseri contadini che morivano in continuazione come mosche e che, tutto sommato, non avevano né salute né tesori di cui lamentare l’abbandono in seguito alla propria dipartita da questa terra. Scrive il Gracian al riguardo che la morte “a i ricchi sembra intollerabile. & a i poveri sollievo”. 

Nell’affresco attribuito a Floriano Ferramola e bottega realizzato fra il 1523 e 24 presente nell’aula superiore dell’Oratorio di Santa Maria in Solario presso il Museo di Santa Giulia a Brescia, la morte con la falce appare incoronata accompagnata dai seguenti versi: 

“IO SON LA MORTE DEGNA DE CORŌA [CORONA] CHE APOSANZA [HA POSSANZA] SOPRA OGNI PERSŌA [PERSONA]. OGNI PSONA [PERSONA] MORÆ EL MŌDO [MONDO] IAS [?] CHE A [HA] OFESO A DIO CŌ [CON] GRAN PAURA” (figura 7 - figura 8)

Nel Criticon di Lorenzo Gracian la Morte dialogando con l’umanità sempre scontenta del suo operato non trovando con essa un punto d’accordo sul chi dovesse uccidere, lasciato l’arco prese la falce iniziando a mietere chiunque: 

“Al fine vedendomi in tanta confusione, e che non potevo aggiustarmi cogli huomini; Male se uccido il vecchio, peggio se uccido il giovine, se la bella, se la brutta, se il ricco, se il povero, se il savio, se l’ignorante. Razza maledetta, diss’io: Chi hò da ammazzare? Accordatevi, vediamo come hà da essere, voi sete mortali, io quella, che uccido, io devo fare l’ufficio mio. Vedendo dunque, che non v’era mezzo termine alcuno, né modo di concordarne, gettai l’arco, e presi la falce, serrai gli occhi, e strettala in mano cominciai a tagliar del pari verde, e secco, acerbo, e maturo, in fiore, e granito troncando del pari, e rose, e spine, comunque venivano”. 

Una delle più antiche se non la più antica raffigurazione conosciuta della morte a cavallo che calpesta persone e brandisce la spada contro dei viventi, si trova in un affresco della metà del sec. XIV presso il monastero benedettino del Sacro Speco a Subiaco (figura 9). 

Come abbiamo da tempo fatto osservare, poiché i trionfi rispecchiano la Scala Mistica cristiana, la presenza della carta della Morte si configura quale ulteriore memento mori, indicante all’uomo l’inevitabilità del trapasso, tempo in cui occorreva che l’anima si trovasse in perfetto stato di grazia per meritare la salvezza eterna. 

Le immagini della Morte nei trionfi aderiscono alle versioni più consuete con la presenza dello scheletro: se nei Tarocchi Colleoni Baglioni è raffigurato in piedi, con in mano un grande arco (figura 10), in quelli di Carlo VI (figura 11) e nei Tarocchi Visconti di Yale (figura 12) appare a cavallo brandendo la falce e calpestando papi, vescovi e cardinali. Nei tarocchi presenti al Victoria and Albert Museum di Londra, la carta della Morte è una delle quattro sopravvissute, assieme alle Stelle, il Fante di Denari e l’Asso di Coppe 7. Essa si presenta come uno scheletro recante una falce e indossante un abito vescovile con tanto di cappello con nappe. Dalla sua bocca esce un cartiglio con la scritta Son fine, variazione per Sine fine ovvero Senza fine, a significare che la sua falce non avrebbe mai cessato di mietere vittime (figura 13). 

Uno stesso cartiglio sempre uscente dalla bocca di un teschio, si ritrova nella cornice cinquecentesca che incornicia il Trionfo della Morte all’Oratorio dei Disciplini a Clusone (figura 14). Tale iconografia rimarrà invariata nella carta della Morte in tutta la sua successiva produzione, compresa quella del Wirth, anche se intrisa da valenze di carattere esoterico (figura 15).

Questo trionfo, naturalmente, si adatta alla vecchia superstizione di cui il 13 è un numero sfortunato. Non è noto se la carta abbia prodotto la superstizione o viceversa. Raccogliendo una saggezza comune che dice che l’uomo dovrebbe nascere vecchio, allorché è savio, per morire giovine, riportiamo un passo dal Criticon del Gracian, dove questa fantasia sulla morte, chiamata ‘La Suocera della Vita’, viene così descritta:

“Muore l’huomo, quando egli dovria cominciare a vivere, quando è savio, e prudente, ed hà acquistato notizie, maturo, stagionato, e perfetto, quando era di maggior utile, ed autorità alla casa, & alla patria, onde nasce animale, muore huomo; però non si deve dire morì adesso, mà che finì di morire, non essendo altro il vivere, che andar ogni giorno morendo”.  

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Figura 3

Se l’abbondante presenza di teschi e scheletri nella tradizione greco-romana richiama un memento vivere, quelli indicati dalla carta dell’Eremita rappresentano piuttosto un memento mori quindi un cave peccatum, cioè un ‘attenti al peccato’. La celebre canzone monodica in forma di danza facente parte delle composizioni presenti nel Llibre Vermell [Libro Rosso] de Montserrat del 1399, contiene parole aderenti a questo concetto:

 Ad mortem festinamus                                                  
 Ci affrettiamo verso la morte
 Peccare desistamus                                                    
 Desistiamo dal peccare
 Scribere proposui                                                    
 Mi sono promesso di scrivere
 De contemptu mondano                                                  
 Sul disprezzo del mondo
 Ut degentes seculi non mulcentur in vano                              
 Affinché non danneggi invano chi ci vive nei secoli
 Iam es hora sugere a sompno mortis pravo                              
 Già è ora di svegliarci dal cattivo sonno della morte
 Ad mortem festinamus                                                  
 Ci affrettiamo verso la morte
 Peccare desistamus                                                    
 Desistiamo dal peccare
 Vita brevis breviter in brevi finietur                                
 La vita breve brevemente finisce
 Mors venit velociter                                                  
 La morte arriva velocemente
 Que neminem veretur                                                  
 che non teme nessuno
 Omnia mors perimit                                                    
 La morte annienta tutto
 Et nulli miseretur                                                    
 E non ha compassione di nessuno
 Ad mortem festinamus                                                  
 Ci affrettiamo verso la morte
 Peccare desistamus                                                    
 Desistiamo dal peccare
 Ni conversus fueris et sicut puer factus                              
 Se non ti convertirai e non sarai (casto) come un fanciullo
 Et vitam mutaveris in meliores actus                                  
 E non trasformerai la vita in azioni migliori
 Intrare non poteris regnum Dei beatus                                
 Non potrai entrare beato nel regno di Dio
 Ad mortem festinamus                                                  
 Ci affrettiamo verso la morte
 Peccare desistamus                                                    
 Desistiamo dal peccare
 ecc. 

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Rubrics è fatta da specialisti 
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L’immagine più usuale con la quale la morte venne raffigurata è quella di uno scheletro armato di falce, strumento che lo connette a Chronos il Dio del tempo, il quale diventa strumento ausiliario della morte. Si può trovare inoltre con in mano un arco o una spada. Una bella immagine di uno scheletro intento a colpire con arco e frecce si trova nella raffigurazione del Trionfo della Morte presso l’Oratorio dei Disciplini di Clusone dipinto nel 1484 o 1485 da Giacomo Borlone de Buschis. Lo scheletro, a destra della Morte Trionfante, incocca tre frecce (peste, fame, guerra) mentre alla sinistra della stessa, un altro scheletro fulmina gli astanti con un archibugio (figura 4).

Ad mortem festinamus                                                                              
Ci affrettiamo verso la morte
Peccare desistamus                                                                                     
Desistiamo dal peccare
Scribere proposui                                                                                         
Mi sono promesso di scrivere
De contemptu mondano                                                                             
Sul disprezzo del mondo
Ut degentes seculi non mulcentur in vano                                            
Affinché non danneggi invano chi ci vive nei secoli
Iam es hora sugere a sompno mortis pravo                                          
Già è ora di svegliarci dal cattivo sonno della morte
Ad mortem festinamus                                                                          
Ci affrettiamo verso la morte
Peccare desistamus                                                                                     
Desistiamo dal peccare
Vita brevis breviter in brevi finietur                                                         
La vita breve brevemente finisce
Mors venit velociter                                                                                     
La morte arriva velocemente
Que neminem veretur                                                                                 
che non teme nessuno
Omnia mors perimit                                                                                    
La morte annienta tutto
Et nulli miseretur                                                                                         
E non ha compassione di nessuno
Ad mortem festinamus                                                                                
Ci affrettiamo verso la morte
Peccare desistamus                                                                                     
Desistiamo dal peccare
Ni conversus fueris et sicut puer factus                                                   
Se non ti convertirai e non sarai (casto) come un fanciullo
Et vitam mutaveris in meliores actus                                                       
E non trasformerai la vita in azioni migliori
Intrare non poteris regnum Dei beatus                                                  
Non potrai entrare beato nel regno di Dio
Ad mortem festinamus                                                                               
Ci affrettiamo verso la morte
Peccare desistamus                                                                                    
Desistiamo dal peccare
ecc.
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Figura 4

La Morte mantiene la falce nel caso venga raffigurata a cavallo, nel ruolo di uno dei ‘Quattro Cavalieri dell’Apocalisse’ (figura 5 – Anonimo, xilografia, sec. XVI) oppure nelle raffigurazioni del trionfo petrarchesco in cui è assisa, con in mano la falce, sopra un carro guidato da buoi psicopompi (dal greco ψυχοπομπóς, da psyche – anima – e pompós – colui che conduce) il cui compito è quello di accompagnare le anime dei morti nel loro viaggio dopo la morte (figura 6 – Philip Galle, Trionfo della Morte, acquaforte, sec. XVI).

I personaggi che accompagnano il suo carro e che vengono calpestati dai tori appartengono a classi sociali ricche e potenti, siano essi laici o religiosi, persone che per i loro privilegi erano in grado di vivere agiatamente e a cui la morte appariva molto più devastante di quanto non lo fosse per quei miseri contadini che morivano in continuazione come mosche e che, tutto sommato, non avevano né salute né tesori di cui lamentare l’abbandono in seguito alla propria dipartita da questa terra. Scrive il Gracian al riguardo che la morte “a i ricchi sembra intollerabile. & a i poveri sollievo”.

Nell’affresco attribuito a Floriano Ferramola e bottega realizzato fra il 1523 e 24 presente nell’aula superiore dell’Oratorio di Santa Maria in Solario presso il Museo di Santa Giulia a Brescia, la morte con la falce appare incoronata accompagnata dai seguenti versi:

“IO SON LA MORTE DEGNA DE CORŌA [CORONA] CHE APOSANZA [HA POSSANZA] SOPRA OGNI PERSŌA [PERSONA]. OGNI PSONA [PERSONA] MORÆ EL MŌDO [MONDO] IAS [?] CHE A [HA] OFESO A DIO CŌ [CON] GRAN PAURA” (figura 7figura 8)

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Figura 7
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Figura 8

Nel Criticon di Lorenzo Gracian la Morte dialogando con l’umanità sempre scontenta del suo operato non trovando con essa un punto d’accordo sul chi dovesse uccidere, lasciato l’arco prese la falce iniziando a mietere chiunque:

“Al fine vedendomi in tanta confusione, e che non potevo aggiustarmi cogli huomini; Male se uccido il vecchio, peggio se uccido il giovine, se la bella, se la brutta, se il ricco, se il povero, se il savio, se l’ignorante. Razza maledetta, diss’io: Chi hò da ammazzare? Accordatevi, vediamo come hà da essere, voi sete mortali, io quella, che uccido, io devo fare l’ufficio mio. Vedendo dunque, che non v’era mezzo termine alcuno, né modo di concordarne, gettai l’arco, e presi la falce, serrai gli occhi, e strettala in mano cominciai a tagliar del pari verde, e secco, acerbo, e maturo, in fiore, e granito troncando del pari, e rose, e spine, comunque venivano”.

Una delle più antiche se non la più antica raffigurazione conosciuta della morte a cavallo che calpesta persone e brandisce la spada contro dei viventi, si trova in un affresco della metà del sec. XIV presso il monastero benedettino del Sacro Speco a Subiaco (figura 9).

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Figura 9

Come abbiamo da tempo fatto osservare, poiché i trionfi rispecchiano la Scala Mistica cristiana, la presenza della carta della Morte si configura quale ulteriore memento mori, indicante all’uomo l’inevitabilità del trapasso, tempo in cui occorreva che l’anima si trovasse in perfetto stato di grazia per meritare la salvezza eterna.

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Le immagini della Morte nei trionfi aderiscono alle versioni più consuete con la presenza dello scheletro: se nei Tarocchi Colleoni Baglioni è raffigurato in piedi, con in mano un grande arco (figura 10), in quelli di Carlo VI (figura 11) e nei Tarocchi Visconti di Yale (figura 12) appare a cavallo brandendo la falce e calpestando papi, vescovi e cardinali. Nei tarocchi presenti al Victoria and Albert Museum di Londra, la carta della Morte è una delle quattro sopravvissute, assieme alle Stelle, il Fante di Denari e l’Asso di Coppe 7. Essa si presenta come uno scheletro recante una falce e indossante un abito vescovile con tanto di cappello con nappe. Dalla sua bocca esce un cartiglio con la scritta Son fine, variazione per Sine fine ovvero Senza fine, a significare che la sua falce non avrebbe mai cessato di mietere vittime (figura 13).

Uno stesso cartiglio sempre uscente dalla bocca di un teschio, si ritrova nella cornice cinquecentesca che incornicia il Trionfo della Morte all’Oratorio dei Disciplini a Clusone (figura 14). Tale iconografia rimarrà invariata nella carta della Morte in tutta la sua successiva produzione, compresa quella del Wirth, anche se intrisa da valenze di carattere esoterico (figura 15).

Questo trionfo, naturalmente, si adatta alla vecchia superstizione di cui il 13 è un numero sfortunato. Non è noto se la carta abbia prodotto la superstizione o viceversa. Raccogliendo una saggezza comune che dice che l’uomo dovrebbe nascere vecchio, allorché è savio, per morire giovine, riportiamo un passo dal Criticon del Gracian, dove questa fantasia sulla morte, chiamata ‘La Suocera della Vita’, viene così descritta:

“Muore l’huomo, quando egli dovria cominciare a vivere, quando è savio, e prudente, ed hà acquistato notizie, maturo, stagionato, e perfetto, quando era di maggior utile, ed autorità alla casa, & alla patria, onde nasce animale, muore huomo; però non si deve dire morì adesso, mà che finì di morire, non essendo altro il vivere, che andar ogni giorno morendo”. 

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Didascalie Morte

  • 1. e 2. Hans Holbein il Giovane, Danze Macabre, xilografie, 1547.
  • 3. Maestro Senese, Leggenda dei tre vivi e tre morti, affresco, metà sec. XIV. Monastero Benedettino del Sacro Speco, Subiaco.
  • 4. Giacomo Borlone de Buschis,Trionfo della Morte, affresco, 1484 o 1485, Oratorio dei Disciplini di Clusone.
  • 5. Anonimo, I Quattro Cavalieri dell’Apocalisse, xilografia, sec. XVI.
  • 6. Philip Galle, Trionfo della Morte, acquaforte, sec. XVI.
  • 7. Maestro Senese, Morte a Cavallo, affresco, metà sec. XIV. Monastero Benedettino del Sacro Speco, Subiaco.
  • 8. La Morte, dai Tarocchi Colleoni-Baglioni, sec. XV.
  • 9. La Morte, dai cosiddetti Tarocchi di Carlo VI, sec. XV.
  • 10. La Morte, dai Tarocchi Visconti di Modrone, sec. XV.
  • 11. La Morte, dai Tarocchi presenti presso il Victoria and Albert Museum, sec. XV, Londra.
  • 12.Son fine, in cornice cinquecentesca che incornicia il Trionfo della Morte all’Oratorio dei Disciplini a Clusone.
  • 13. La Morte, dai Tarocchi di Oswald Wirth, 1927.
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