Il fascino di Retorica ed Eloquenza


Molti, tra i grandi oratori, avversarono la trascrizione dei loro discorsi. Ma anche le parole trascritte racchiudono il fascino della grande eloquenza. La scintilla del discorso trascritto.

Si può parlare di retorica ed eloquenza analizzando un testo scritto? La domanda sembra assecondare uno slancio provocatorio ma è, in realtà, manifestazione di un dubbio tremendo che fa insorgere altri interrogativi insidiosi: si può imprigionare l’eloquenza nei limiti angusti di una pagina? Il discorso esiste soltanto nel momento in cui viene detto oppure, riprodotto per iscritto, mantiene intatti fascino e malìa?

Rispondere a tali domande mi pare sia il modo più opportuno per inaugurare questa rubrica sulla retorica e sull’eloquenza che ho il piacere di curare.

Molti grandi oratori hanno guardato con sospetto e talvolta con avversione recisa alla riproduzione e alla diffusione dei loro discorsi. Consegnati al lettore vorace, lontani dai tumulti dell’ora in cui furono pronunciati, i discorsi incontravano il rischio di divenire riproduzioni sterili, prive della suggestione oratoria che aveva infiammato i cuori ed elevato le anime degli ascoltatori.

E poi? Cosa rimane nel discorso scritto del gesto vibrante, dello sguardo luminoso, della voce suadente, dei silenzi eloquenti? Come può il lettore rivivere i momenti in cui la voce è rotta dall’emozione o inturgidita dalla passione? Domande che paiono retoriche poiché contengono in sé già una risposta negativa rispetto alla qualità di un discorso riversato nell’inchiostro delle stampe.

Durante lo studio che ho condotto sull’oratoria forense nella Napoli dei primi decenni del novecento, i giudizi di alcuni dei più grandi oratori italiani di ogni tempo non hanno lasciato adito a dubbi: una condanna feroce, unanime e (rimanendo in tema di diritto) senza possibilità di appello per la trasmutazione materica delle loro imprese oratorie.

È d’uopo riportare i giudizi espressi da due dei più grandi oratori di quella epopea: Gennaro Marciano ed Enrico De Nicola. Nelle loro parole, composte con la sintesi sublime dell’arte, è espressa tutta l’asprezza del giudizio in merito alla trascrizione dei discorsi.

Gennaro Marciano disse: «l’opera dell’oratore non ha virtù di sopravvivenza oltre l’ora fuggevole dell’entusiasmo e del prodigio, fu più volte detto che nel momento stesso in cui essa si esplica e trionfa si esaurisce. Nasce e muore con l’artefice e si dilegua come la vibrazione di un suono. Pari al ritmo della vita che interpreta, con esso si confonde e si disperde, fenomeno evanescente nello spazio e nel tempo» (da Gennaro Marciano, Conferenze, Giuffré, Milano 1957, pg.92).

Enrico De Nicola con convinzione affermò: «nulla altera le linee di un’arringa più della riproduzione stenografica, che -come Plutarco fa dire a Temistocle della traduzione a mezzo di interpreti- può paragonarsi al rovescio di un bel tappeto figurato; nulla è lontano dalla vita più dell’eco di un’orazione, che, come una febbre, aveva fatto ardere le vene degli ascoltatori» (E. De Nicola, “Prefazione”, in G. Porzio, Figure Forensi, Edizioni La Toga Napoli, Napoli 1945,p.6).

Ma è proprio così? La contrapposizione tra il discorso detto e quello scritto è così netta da identificarsi con la contrapposizione tra un’arte ineffabile e una scialba riproduzione, tra un momento gravido di passione ed un altro asettico e piano? Ciò che proverò a dimostrare, con questa rubrica, è che il discorso scritto ha un valore intrinseco non minore di quello che si esplica nell’ora della ispirazione oratoria.

Certo l’orazione scritta non è l’orazione pronunciata. Ma ciò che deve derivare da questa considerazione non è l’esaltazione acritica della prima e la demonizzazione della seconda: a mio avviso sono due manifestazioni di un’unica arte, quella della parola.

Il discorso pronunciato si arroventa nel momento della sua manifestazione e vive del carisma dell’oratore, si delinea con la sua voce ed il suo gesto; il discorso trascritto fissa sulla pagina l’ispirazione facendo sì che non si disperda del tutto, tradotta e incastonata nel succedersi dei segni grafici.

Altrimenti perché leggeremmo, a millenni di distanza, i discorsi di Cicerone provandone un’emozione viva, probabilmente non diversa da quella di coloro che ebbero la fortuna di ascoltarlo? Perché passeremmo delle ore a leggere le parole furenti di Demostene che si scaglia contro Filippo? Perché ci sentiremmo ispirati dalle parole d’amore pronunciate da Pericle per la sua Patria? Perché in quelle parole v’è una scintilla eterna che si sprigiona indipendentemente dal momento e dal mezzo.

Quella scintilla, attraverso l’analisi dei discorsi, proverò a far rilucere. Sarà manifesto, allora, che anche nelle pagine ingiallite di un’orazione fatta d’inchiostro, esiste l’ispirazione superiore e misteriosa che genera ogni creazione artistica. E che rimane lì, sepolta sotto la patina della pagina, tetragona allo scorrere dei millenni.

Immagine: Polimnia, la musa de la Poesía Sacra, Biblioteca de Nueva Acrópolis

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